Pippo Delbono. Orchidee

6 Giugno 2013

È la disperata vitalità, la cifra teatrale di Pippo Delbono. La voglia di strappare un significato allo stare nel mondo, in una scena che non ha limiti, che si apre all’esterno e si richiude su se stessa per continui flussi di coscienza, popolata da figure che puoi incontrare per le strade del mondo e non solo attori. Danzano corpi oversize, Gianluca il ragazzo down diventa una splendida ballerina impiumata del Crazy Horse, Bobò, che ha vissuto per quarant’anni e più in un manicomio, con i suoi raschiati, straziati versi di muto diventa voce dolorante del mondo. Non cercate un filo immediatamente visibile: lasciatevi trasportare dai flussi di immagini, suoni, parole; dai molti finali, come se non si volesse mai smettere questa confessione in pubblico che permette di rimanere vivi in una realtà che toglie, di continuo, la voglia di esistere.

 

Bobò, ph di Mario Brenta e Karine De Villers

 

Lasciatevi avvolgere dai mille profumi dell’ultimo spettacolo, selvaggi, sensuali, carezzevoli, esotici, domestici, come il fiore che gli dà nome. Orchidee ha debuttato in chiusura di Vie Scena Contemporanea Festival a Modena, in un fine settimana che ha reso evidente il senso di una rassegna pensata in dialogo con una terra scossa, solo un anno prima, dal terremoto. Il bellissimo, leggero, divertente Viaggio al centro della terra della non-scuola del Teatro delle Albe, con bambini di San Felice sul Panaro, e il densissimo rito di Home_quattro case di Virgilio Sieni, danzato da persone di Carpi usando tegole travi detriti del sisma, si intrecciavano con le scosse interiori e civili di Quai ouest di Koltès-Adriatico, trasferito a Bologna sull’argine del fiume Reno, dove il sindaco Cofferati, ex capo della Cgil, sgomberò baracche di immigrati rumeni, e con questo nuovo spettacolo-manifesto di Pippo Delbono, gridato, sussurrato, tremato come un infuriare  contro il morire della luce.

 

Pepe e Gianluca, pg. di Mario Brenta e Karine De Villers

 

Inizia a parlare, subentrando alla voce dell’addetto del teatro che chiede di spegnere i cellulari, con le luci di sala ancora accese. Ricorda i telefonini, ancora, la gente che non guarda più negli occhi, che va sempre china su schermi grandi e piccoli. “Mia madre diceva: cos’è ‘sto YouTube, ‘sto Facebook. Se n’è andata perché non ci capiva più niente di questo mondo. Lei fermava la persone per strada, ci parlava, raccontava a tutti i fatti miei… E io dico tanto di mia madre, ma anch’io fotografo, filmo tutte le persone, le cose che vedo... Ho ripreso anche lei, mentre si spegneva, e un ciliegio, simile a quello che quando ero piccolo invadeva con i suoi fiori la nostra casa… Poi qualcuno l’ha tagliato, e quell’odore è finito per sempre”. Teatro, e vita, fotografia, televisione, cinema si intrecciano, ricordi e invenzione: il ciliegio tornerà, nello spettacolo, con immagini di rami fioriti e poi ricoperti di neve, ghiacciati in paesaggi invernali, proiettate sul grande schermo che chiude la scena, e nelle parole di Čechov, nello struggente finale del Giardino dei ciliegi, un mondo che svanisce e muore.

 

ph. di Chiara Ferrin

 

È uno spettacolo funebre, questo, un tentativo di esorcizzare morti che lasciano nudi, lasciano orfani. E allora quei siparietti della compagnia di Pippo, con uomini grassi, bassi, muscolosi o troppo magri, e donne allampanate sui tacchi o tracagnotte che danzano, ammiccano, si mostrano ripetendo uno stesso gesto in passerelle circolari che debordano verso il pubblico, è uno scoperto omaggio alla maestra, quella che faceva danzare tutti col passo della vita e del sogno, bambini e vecchi, ballerine dalle gambe pelose e splendenti ganimedi tedeschi: Pina Bausch.

 

ph. di Chiara Ferrin

 

Non capisce più bene la realtà, Pippo, un mondo che ti chiede con chi vai a letto e dichiara “contro natura” i matrimoni gay e poi permette lo sterminio per guerra, per fame, per sfruttamento. Non distingue più gli amici dai nemici. Non capisce questo non guardarsi negli occhi, quei volti di plastica di modelli e modelle che avvicina, sullo schermo, in un dirompente trattato di fisiognomica, a scimmie intente, aggressive, voraci. Non concepisce il pubblico fermo, seduto sulle sedie di velluto del teatro, che non balla, che non palpita con le confessioni degli attori, che non piange alle parole d’amore di Giulietta e di Romeo, contro la morte. Cerca di contagiarli in tutti i modi gli spettatori, irrompendo lungo la platea, facendovi urlare qualcuno con un megafono, lasciandovi scorrazzare Nelson Lariccia, un passato vagabondo, una magrezza impressionante e filosofica, qui nelle vesti di smagliante inserviente circense. Si confessa, l’omosessualità, l’Aids, tutto quello che in altri spettacoli chiedeva al pubblico di non rivelare alla madre, così cattolica, così perbene… Chiede a una sua attrice di esaltare la verità, contro il teatro, per farla scivolare subito in una pseudo-realtà da falsarti d’arte, come in un Thomas Bernhard con un tocco di truffaldina italianità, per fare subito irrompere il teatro, Romeo e Giulietta, il Giardino dei ciliegi. Ma tutto questo strologare, che prevede anche un Nerone di Mascagni in playback e varie altre attrazioni, confluisce nel momento più straziante e dolce.

 

ph. di Chiara Ferrin

 

Il regista, crudelmente, proietta un filmato ripreso negli ultimi giorni di vita della madre. Si sente la voce provata della donna, e poi si vedono due mani: quella diafana, consumata dalla malattia, di lei, accarezzata da quella piena di lui, che poi scende sulle coperte, a far sentire il tocco, il calore, a gambe che solo intuiamo sotto le coltri, verso lo svanire, come le memorie, come quei ciliegi tagliati.

 

Pippo danse, ph. di Mario Brenta e Karine De Villers

 

E poi, subito dopo, il circo e i ragionamenti riprendono, tra John Baez e l’utopia dei figli dei fiori, Oscar Wilde e il rock neo-melodico napoletano, i caroselli e i pensieri urlati a alta voce., la rivoluzione e il fallimento di ogni rivolta che non sia individuale come grida nel famoso Marat Sade di Peter Weiss, volti d’Africa e una disperata voglia di strappare il tempo al buio incombente.

 

ph. di Mario Brenta e Karine De Villers

 

È questo lo spettacolo più emotivo e allo stesso tempo più controllato del nostro attore forse più amato in Europa e in vari paesi del mondo. È un’ode alla memoria e alla vita perduta, alla liberta del sesso e della testa, a un mondo di contatti umani, giocata con immagini spesso dirompenti, molte volte malinconiche e struggenti, carnali e lunari come le orchidee.
In scena al Piccolo di Milano in ottobre e poi in tournée

 

Orchidee uno spettacolo di Pippo Delbono

con Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Bobò, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Julia Morawietz, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella
luci Robert John Resteghini
coproduzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Nuova Scena-Arena del Sole-Teatro Stabile di Bologna, Teatro di Roma, Théâtre du Rond Point-Parigi, Maison de la Culture d’Amiens - Centre de Création et de Producti
Compagnia Pippo Delbono

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