Matematica mon amour

27 Febbraio 2015

Soffriamo ancora dell’antico male di una marginalità delle scienze nel panorama complessivo della nostra cultura; eredità, certo, del classicismo umanistico su cui si sono innestati prima il neoidealismo, liberale e fascista, poi lo storicismo, ma vi sono anche responsabilità degli scienziati, spesso gelosi custodi dei propri saperi, protetti nella clausura sacerdotale di linguaggi specialistici. Uno dei primi meriti degli scritti che Claudio Bartocci ha raccolto in Dimostrare l’impossibile (Cortina 2014) è il richiamo al dovere etico di rendersi comprensibili a tutti: condizione per lo sviluppo del sapere (e della civiltà) è “fare uso pubblico della propria ragione” (Kant), senza soggiacere a coercizioni esterne. Del resto, proprio le innovazioni delle tecnologie informatiche affidano il futuro dei saperi alla condivisione. Il matematico inglese Tim Gowers decise nel 2009 di proporre in rete un difficile problema di combinatoria e furono le risposte dei lettori a condurre alla soluzione; esperimento di intelligenza collettiva, rilevante soprattutto nella prospettiva dell’etica della ricerca scientifica. La scoperta non vive nel segreto, impone di eliminare barriere che restringono la fruizione dei saperi, nel nome di una open source che dovrebbe essere la norma della cité scientifique: quel che conta nella scienza è condividere le idee e comunicarle.

 

Con calviniana “leggerezza”, Bartocci naviga fra i saperi e la loro storia obbedendo al demone dell’Enciclopedia: quest’ultima sembra modellarsi sull’immagine leibniziana di uno spazio fluido e dinamico, corpo continuo come un oceano le cui acque si scambiano di continuo e a cui solo in modo arbitrario attribuiamo nomi differenti. Esempio di Terzo Istruito, Bartocci transita per gli impervi cammini che tracciano il passaggio a nord-ovest fra le due culture: costruisce ponti fra i saperi, perché, come Primo Levi faceva dire al montatore di tralicci protagonista de La chiave a stella, i ponti sono il contrario delle frontiere. Anche la cosiddetta “rivoluzione scientifica”, cara al discontinuismo di Bachelard che ispirò Alexandre Koyré, non significò un’immediata rottura con le “scienze curiose” del tardo Rinascimento. Come interpretare ad esempio la transizione fra la pratica degli alchimisti e l’avvento della chimica, se le tracce di quella pratica si ritrovano negli scritti para-scientifici di Newton, come pure nello Sceptical Chymist (1661) di Robert Boyle, atto di nascita della chimica moderna? A differenza di una lettura neo-positivista, non appare possibile demarcare in modo netto la scienza dalla pre-scienza (e dalla non-scienza); come attestano le pagine de Il sistema periodico di Primo Levi (che Bartocci ricorda, a proposito del libro di Oliver Sacks, Zio Tungsteno), quel passato immaginifico si risveglia quando la mano artefice è chiamata ad agire sulla materia. E quel che vale per il Newton alchemico (e studioso dell’Apocalisse), vale anche per le altre figure fondative della scienza moderna: per il Galileo che compone tavole astrologiche e resta fedele alla perfezione pitagorica del cerchio, senza accogliere l’ellisse delle orbite kepleriane. Per Keplero stesso le cui accurate osservazioni astronomiche si radicano in un misticismo geometrico che vorrebbe stringere l’universo nelle spire dei solidi platonici.

 

 

Le pagine di Bartocci promuovono “intrecci” (come recita il sottotitolo della prima parte del libro), fecondi incroci fra scienze e cultura umanistica. Questo avviene a partire da una scienza elettiva, la matematica, il cui ambito di applicazione non fa che estendersi, grazie a strutture e codici che rendono visibili una molteplicità crescente di fenomeni. A Bartocci, docente di Fisica matematica all’università di Genova, dobbiamo la fondamentale Storia della Matematica, curata per Einaudi insieme a Piergiorgio Odifreddi, e più di recente quelle storie della geometria, da Gauss a Hilbert, raccolte in Una piramide di problemi (Cortina 2012). La sua lettura avviene spesso in modo obliquo, da prospettive inusuali; muove ad esempio dai Cahiers di quel “poeta del rigore impassibile della mente” (diceva Italo Calvino) che era Paul Valéry, il quale ricorda che la parola capitale in matematica è “si può”: i teoremi indicano sotto quali condizioni si può effettuare una costruzione, risolvere un problema, eseguire un’operazione. La matematica è il paese dei possibili, notava Wittgenstein, un paese governato da quel bacino di molteplicità potenziale che è la facoltà dell’immaginazione, come accade nel limitrofo territorio della poesia. Ma in matematica il possibile viene ridefinito di continuo, è un orizzonte che si sposta; e si può dimostrare che un problema non è risolubile, come farà Abel nel caso dell’impossibilità di risolvere per radicali l’equazione generale di grado superiore a quattro. Simone Weil, sorella di André, uno dei massimi matematici del Novecento, chiedeva ne La prima radice che si ridesse alla geometria il suo sapore, quello di essere uno studio il cui oggetto è la necessità. Lo si può fare empiricamente, associando la geometria all’officina, mettendola di nuovo in rapporto con il lavoro, facendo eseguire compiti possibili e chiedendo di dimostrare perché alcuni non sono eseguibili: «L’esecuzione è una sufficiente prova empirica della possibilità, ma per l’impossibilità non c’è alcuna prova empirica: occorre la dimostrazione. L’impossibilità è la forma concreta della necessità». L’impossibile non è l’inaccessibile, ma la terra incognita da esplorare, quella su cui si sono mossi gli scopritori (o inventori, secondo il classico dilemma) dei numeri irrazionali e di quelli immaginari. Certo, questo può scatenare i “turbamenti” del giovane Torless dell’omonimo romanzo di Musil: fare un calcolo con numeri immaginari, iniziando e terminando con numeri reali, è analogo a scavalcare un «ponte di cui esistano solo il primo e l’ultimo pilastro, e che tuttavia si possa attraversare con la stessa sicurezza che se esistesse per intero». In quel primo Novecento i matematici scoprivano che le proprie creature erano in grado di “ribellarsi”, ad esempio nel caso degli insiemi infiniti, svelando proprietà impreviste, fino alla contraddizione o all’antinomia.

 

Il volto che la matematica ci offre non è tanto quello cristallino del logos, nella forma della “catena di ragioni” della deduzione cartesiana, quanto dell’intelligenza astuta, la metis in cui brillava lo scaltro Odisseo, dai mille stratagemmi. Anche il matematico deve qualcosa alla destrezza dell’auriga, alla sagacia del medico e alla malizia della volpe; la metis non è solo l’arte di chi deve confrontarsi in modo obliquo con le imprevedibili circostanze del mondo, ma anche quella, osserva Bartocci, di chi deve fare i conti con le crepe che incrinano lo specchio lucente della ragione, come accade di fronte all’antinomia del mentitore o a quella di Russell, o ai paradossi dell’infinito (dove il tutto può equivalere a una parte). Questi apparenti inciampi del pensiero indicano nuovi cammini, mettono a nudo premesse inconsapevoli; ci hanno costretti a pensionare il sogno logicista di ridurre la matematica alla logica, ma anche quello formalista di Hilbert, per decreto dei teoremi d’incompletezza di Gödel.

 

È a una razionalità astuta che si è dovuto ricorrere per integrare in ambito matematico oggetti quotidiani come i nodi, quelli dei marinai, delle pettinature o dei tappeti: forme in cui coabitano ordine e disordine, come nello “gnommero” di gaddiana memoria. Grazie alla topologia siamo ora in grado di classificarli, riportandoli a invarianti. Il ruolo di questa matematica qualitativa, dell’anesatto (Wittgenstein ripeteva spesso che “la matematica non è calcolo”), sta crescendo sempre più: è determinante per gli studi sulle reti complesse in cui siamo immersi, dal decorso delle epidemie alle interazioni negli ecosistemi, dalle reti di trasporto alla Rete per eccellenza di Internet. Nel 1990 quest’ultimo si componeva di una sola pagina, oggi è un’immane ragnatela che la topologia delle reti descriverebbe come una bizzarra cravatta a farfalla, dove rimangono continenti inesplorati. Anche in questo caso nuovi strumenti matematici aprono campi impensabili di visibilità: la matematica, forse ancor più dell’arte, rende visibile l’invisibile, porta un po’ di chiarezza su fenomeni da sempre refrattari al rigore. Così, nuvole, schiume dei boccali di birra, caduta delle foglie o linee costiere frastagliate, possono rientrare, mediante la teoria delle catastrofi di René Thom o la teoria dei frattali di Benoit Mandelbrot, in un repertorio di forme di cui si possono descrivere le dinamiche spesso turbolente, come nel caso degli andamenti finanziari.

 

Slim Pickens cavalca la Bomba, Il Dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, Stanley Kubrick, 1964

 

Anche nelle scienze può accadere di ricorrere alla serendipità, cioè all’arte di scoprire, per caso e per sagacia, quel che non si sta cercando: i raggi x e la radioattività, il potere selettivo dei neutroni lenti ad opera di Fermi o la penicillina ad opera di Fleming. Per l’invenzione matematica non esistono regole del metodo, semmai, come diceva André Weil, spesso risultano feconde oscure analogie, furtive carezze e ambigue corrispondenze; e spesso solo col tempo emergono sorprendenti possibilità applicative di quanto si è prodotto nella ricerca pura. È anche per questo che la matematica in Italia, dopo una fase di generosa fioritura a cavallo del Novecento, conoscerà un profondo declino: l’idea, neo-idealista e fascista, che i concetti della scienza siano utili al più per intervenire sulla realtà, ma non per comprenderla, porterà a privilegiare la dimensione applicativa (significativo che a dirigere il CNR venga chiamato Guglielmo Marconi, allontanando Vito Volterra); le cattedre verranno distribuite per investitura dall’alto, premiando l’obbedienza, invece delle capacità creative. E fedele al regime certo non era Renato Caccioppoli, il matematico napoletano istintivamente ribelle a ogni conformismo; finito in carcere per accattonaggio, quando aveva voluto sperimentare la vita dei barboni, rischia di tornarci quando, per farsi beffe della norma che vietava agli uomini di portare cani al guinzaglio, passeggia con un gallo, e ancora quando nel ’38, al tempo della visita di Hitler a Napoli, si mette pubblicamente a imprecare contro nazismo e fascismo.

 

Musil indicava nell’homo mathematicus il modello di una razionalità animata dal fuoco della passione e svincolata da ogni utile immediato: il che spinge alla modestia – la matematica è sempre più intelligente di noi –, ma anche all’audacia di rimettere orgogliosamente e pericolosamente in discussione i fondamenti stessi della propria disciplina. Per scoprire poi che l’intero edificio del sapere matematico “è sospeso per aria”, anticipando la constatazione di Popper per cui le teorie scientifiche sono simili a palafitte le cui fondamenta sprofondano in una palude. Il furor mathematicus ha le sue vittime: da Évariste Galois allo schizofrenico John Nash, dalla “divina follia” di Alan Turing, la cui teoria della calcolabilità sembrò realizzare il sogno leibniziano di tradurre il ragionamento in calcolo, a Kurt Gödel che, dopo gli straordinari risultati ottenuti negli anni Trenta, dà ben presto segni di squilibrio mentale. A Princeton il suo isolamento è rotto dalle passeggiate con Einstein e dalle cure assidue della moglie, mentre lui vive nel terrore di essere avvelenato, un’ossessione che lo condurrà alla morte per denutrizione.

 

Bartocci insegue i grandi scienziati nel loro quotidiano, nei luoghi non accademici, dove spesso si producono feconde illuminazioni: ad esempio nel ristorante parigino dove nasce il gruppo di matematici (fra di loro André Weil) che prende il nome dal generale di Napoleone III Nicolas Bourbaki. Il loro intento è ricostruire l’edificio della matematica a partire dalla nozione di struttura: una lezione che ha lasciato impronte significative, sul terreno filosofico nelle origini dello strutturalismo (in Piaget e Lévi-Strauss, e nel nomadismo strutturale di Michel Serres), e in ambito letterario, soprattutto sul gruppo dell’Oulipo di Raymond Queneau e di Perec. Da Bourbaki sarà ispirato Laurent Schwartz, inventore delle distribuzioni (un’estensione delle tradizionali funzioni), esempio di rigore morale e impegno politico: prese posizione contro la guerra in Algeria, fece parte del Tribunale Russell contro i crimini statunitensi in Vietnam. Non è forse la scoperta matematica a insegnarci che non bisogna obbedire ad alcuna autorità, ed essere sempre pronti a infrangere tabù?

 

Spano, il Gruppo Segrè a Los Alamos, 1943. Da sinistra a destra: Clyde Wiegand, G.A. Linenberger, M. Kahn, Owen Chamberlain, George Farwell, J. Miskel, Ann Kahn, Bill Nobles, John Jungerman, Emilio Segrè, and Martin Deutsch. Crediti: AIP Emilio Segrè Visual Archives, Segrè Collection

 

Fra le grandi figure del pensiero scientifico degli ultimi due secoli – Helmholtz, Boltzmann, Poincaré (“pescatore di pensieri che ogni giorno porta a riva pesci” strani e vari), sempre svelate da prospettive inusuali – il ruolo primario spetta ad Einstein, su cui Bartocci fa un’osservazione che può valere come emblema del libro: «le speculazioni teoriche e le ipotesi scientifiche sulla coppia dicotomica assoluto-relativo si intrecciano con le metafore letterarie e le intuizioni poetiche, disegnando un’aggrovigliata rete di rimandi e consonanze». Il problema del tempo, la forma fluens del moto nello spazio, la questione della simmetria (e della sua rottura), o quegli oggetti magici che sono le ombre, restano nodi intricati su cui le novità delle scienze incrociano le suggestioni dell’immaginario: da Zenone a Borges, passando per Gadda e Calvino, le fantasie di pensatori e letterati hanno spesso fatto ricorso a metafore, magari sotto forma di esperimenti mentali, come il “gran naviglio” del Dialogo galileiano, o il cosiddetto paradosso dei gemelli. La seconda rivoluzione scientifica, che si annuncia nel 1905 con cinque scritti fondamentali di Einstein, doveva disorientare il senso comune e aprire il varco a nuovi paradossi: la radiazione elettromagnetica ha comportamenti ondulatori e corpuscolari, l’osservazione perturba il fenomeno, come vuole il principio d’indeterminazione di Heisenberg. Il nesso causa-effetto mostra crepe sempre più profonde, ma Einstein non poteva accettare un Dio che giocasse a dadi con il mondo; in realtà, dimostrerà John Bell nel ’64, dobbiamo in qualche modo venire a patti non solo con il paradosso del gatto di Schrödinger (la cui sorte è legata alle condizioni dell’osservare), ma anche con l’esistenza di particelle soggette a una correlazione a distanza che agisce in maniera istantanea. Gli sviluppi della relatività generale ci conducono a situazioni inimmaginabili (impensabili, ma anche non traducibili in immagini), a un iper-spazio, composto di dieci dimensioni dotate di una topologia molto complicata, come vuole la teoria delle stringhe. Non sorprende che in questo campo della fisica teorica si debba ricorrere a un pensiero divergente e iconoclasta come quello di Richard Feynman, che ha reso “visibili”, con i diagrammi della sua teoria quantistica dell’elettromagnetismo (QED), i comportamenti dei fenomeni subatomici. Per questo amante del paradosso, sempre pronto alla battuta, la scelta delle sue lettere non poteva avere titolo migliore di Deviazioni perfettamente ragionevoli dalle vie battute.

 

Spiace non potersi soffermare su altri momenti del lavoro di Bartocci, in particolare sulle questioni suscitate dalla teoria darwiniana o sui mutamenti nel campo della termodinamica, ambiti in cui la teoresi delle scienze intreccia le domande filosofiche e metafisiche. Lasciamo la conclusione a una delle pagine più tragiche della scienza contemporanea, quel progetto Manhattan in cui Enrico Fermi, esule dall’Italia dopo aver ricevuto il premio Nobel, ebbe un ruolo eminente. Non era certo la prima volta (basti pensare ad Archimede, a Leonardo, a Fritz Haber, l’inventore dello Ziklon B, il gas utilizzato nelle camere a gas) che gli scienziati si prestavano allo sforzo bellico; ma le fotografie che ritraggono i costruttori delle bombe tranquilli e sorridenti davanti al laboratorio di Los Alamos restano «testimonianza tragica della ragione scientifica svuotata di ogni principio etico». L’ecatombe di Hiroshima e Nagasaki non getterà alcuna ombra nell’animo di Fermi, che anzi commenterà con agghiacciante distacco il suo lavoro, “di notevole interesse scientifico”. Altri, come Franco Rasetti, rifiutano di collaborare al progetto della bomba a fissione per ragioni morali; forse l’unico, se non diamo credito alla suggestiva ma fragile ipotesi che Sciascia ha avanzato per il caso Majorana. Anche se crescono i rischi provocati dalla tecnologia iper-sviluppata, come dimostra la catastrofe di Fukushima, non possiamo che far uso degli strumenti della ragione, pur nella consapevolezza della loro fallibilità, conclude Bartocci. Ma se è stata la scienza stessa a istruire la ragione, come diceva Bachelard, oggi tocca all’etica rendere la scienza più cosciente dei suoi poteri e delle sue responsabilità.

 

 

 

Claudio Bartocci, Dimostrare l’impossibile, Raffaello Cortina Editore, pp. 257, euro 23,00

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