Angiola

29 Aprile 2011

 

Il romanzo è Vergogna, uno dei capolavori del nobel sudafricano Coetzee. Il personaggio principale è David Lurie, che, dopo aver sedotto una studentessa, è espulso dall’università di Città del Capo, dove insegna. Si trasferisce allora dalla figlia Lucy, in una fattoria della provincia orientale. Qui, nel laboratorio veterinario di Ben Shaw, si dedica ai cani destinati alla “dissoluzione”.

 

Col tempo impara a trattare gli animali prima del loro salto nel buio.

Poiché Ben gli ha detto che i cani sentono “l’odore dei pensieri”, si sforza di tranquillizzarli, lascia che gli lecchino le mani. David si convince passo dopo passo che i cani percepiscano “la vergogna della morte”.

 

A Cantù, nella Brianza operosa, la signora Angiola Tremonti, assessore del comune e pittrice (nonché sorella di Giulio, il ministro), ha chiesto poco tempo fa che i cani randagi siano soppressi. Giustifica la sua richiesta evidenziando le spese a cui il comune andrebbe incontro per il loro mantenimento. Si richiama al buon senso, si dichiara proprietaria di amatissimi cani. Adduce pure che nessuna pietà ispira gli umani ad intervenire con energia contro altre specie quando queste diventano dannose.

 

David Lurie, un uomo che è sempre stato indifferente a tutto, impara a conoscere la vergogna solo quando scopre la sofferenza degli animali. Gli capita la prima volta con una vecchia bulldog, poi con due agnelli destinati alla macellazione. Quindi, dopo lo stupro di Lucy, con tutti i cani della clinica. Si sente anche in dovere di condurre le loro carcasse all’inceneritore. Lasciarli al loro destino sarebbe un disonore. Pensa di essersi accollato questo compito perché non c’è nessun altro - “così stupido”  - che lo faccia.

 

Angiola Tremonti parla di numeri, applicando la logica dell’antropodiniego: i cani sono cani, nessuno li può paragonare all’uomo. Ricorda la pericolosa coincidenza tra amore per i cani e indifferenza verso gli umani, macchia (a suo dire) di ogni animalista. Ricorda pure la piaga del randagismo.

 

Il filosofo romeno Raimond Gaita in Il cane del filosofo, sostiene che il cane sia un individuo a cui si riconosce la necessità di evitare la vergogna di diventare spazzatura, rottame, carcassa. L’individualità dell’animale è il punto di non ritorno. I cani hanno perso la genericità della specie, persino nell’abbrutimento. Hanno un nome. E, soprattutto, “possiedono” lo sguardo. I loro occhi ci scrutano, ci spogliano, ci imbarazzano evocando sensi di colpa e vergogna. Lo sguardo è lo specchio in cui si riflette la nostra umanità. Eliminare un cane che non trova padrone – perché essendo fuori mercato diventa un “danno all’erario”– non è molto diverso da certe igieniche “cancellazioni” di indesiderati, di cui la nostra storia di specie reca abbondante e funesta traccia.

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