Il furto del Guercino e il prodotto «bellezza»

1 Agosto 2015

Un anno fa, nell’estate del 2014, venne rubata dalla chiesa modenese di San Vincenzo una tela di Guercino, la Madonna con san Giovanni Evangelista e san Gregorio Taumaturgo. Se, a distanza di diversi mesi (senza che il quadro sia stato ritrovato), torniamo indietro e consideriamo le reazioni immediate al furto e i discorsi sollecitati dall’episodio modenese, ci accorgiamo come le une e gli altri siano rivelatori: saltano fuori, nei confronti delle opere d’arte del passato, pensieri (e conseguenti) atteggiamenti che – magari sottaciuti – attraversano buona parte della cultura del nostro paese.

 

 

Dunque, Modena, agosto 2014: sconcerto per la facilità del «clamoroso furto», giornalisti che si accorgono che il patrimonio è «a rischio», rammarico delle istituzioni pubbliche, riunioni di commissioni, solenne deplorazione per le sorti del nostro patrimonio storico-artistico. Reazioni prevedibili, quanto dovute. In parallelo, uno dei primi argomenti ad essere rilanciato negli articoli dei quotidiani e nei servizi televisivi è quello dei «sei milioni di euro», il valore («inestimabile») dell’opera sul mercato secondo uno degli esperti intervistati. È questa, infatti, una delle prime cose che il giornalista chiede all’esperto di turno, presumendo che sia ciò che più interessa al pubblico: «ma quanto vale?». Che poi l’opera non sia minimamente commerciabile, come è certamente il caso del quadro di Guercino, è argomento che passa in secondo piano. Il primo problema, insomma, è quello del valore (in denaro) dell’opera d’arte.

 

Tra gli articoli usciti in quei giorni, quello di Flavio Favelli – Il Guercino e l’ideale classico che ci separa dalla nostra vita, Repubblica Bologna, 20 agosto 2014 – si segnala per più ragioni, del tutto diverse una dall’altra: per prima cosa è scritto da un artista che si confronta da sempre con la contemporaneità, un artista cioè pienamente aggiornato sulle tendenze attuali, come gli viene riconosciuto da più parti. In secondo luogo, si capisce bene che nell’articolo il centro della riflessione non è affatto il quadro di Guercino, ma, più ampiamente, la produzione artistica del passato nel suo complesso e il suo senso all’interno dell’esperienza quotidiana (e non solo della cultura) odierna. In più, il testo di Favelli è scritto con un linguaggio diretto, senza tanti giri di parole e senza troppe prudenze. Il suo tono e le sue argomentazioni, come vedremo, sono interessanti perché – al di là del giudizio che si voglia dare alle sue parole – da una parte presentano l’angolazione di un soggetto interno alla storia dell’arte, un artista in attività appunto; dall’altra offrono il punto di vista di potenziali soggetti del tutto esterni ad essa; insomma Favelli parla – una volta si diceva così – come l’«uomo della strada».

 

Proviamo dunque a seguire il suo ragionamento. Il problema, come dicevo, non è la pala del Guercino, a cui viene ovviamente riconosciuta un’alta qualità artistica, ma il rapporto tra quella e la nostra contemporaneità: «Tutti personaggi tanto belli, quanto desueti e lontani, come i Sansoni e i San Giuseppe, che sono solo belle interpretazioni di un mito antico oramai passato. C'è una bellezza ideale, oltre che politica e di propaganda oramai esausta e fine a se stessa». Dunque, questa «bellezza», che pure c’è, è una bellezza esaurita, tanto che Favelli fa ormai fatica ad ammettere che quadri come quello di Guercino siano capolavori: «Questi assoluti capolavori, così tanto assoluti che sono a centinaia nel Bel Paese, sono dei reperti scarichi che parlano agli appassionati di pittura con gusti antimoderni». Sì, insomma, sono belli, ma parlano solamente a uno sguardo vecchio, o addirittura «antimoderno». Ma arriviamo all’accusa più rilevante: «il modo di vedere donne, uomini, madonne e angeli [che possiamo osservare in quadri come quello del Guercino, nota mia] non ci riguarda più, non ha più significato oltre ad avere un grande difetto: ci separa dalla realtà. Ci scinde fra un passato lontano, passato per sempre, dove le cose erano belle per davvero e un presente assolutamente diverso».

 

È veramente curiosa l’argomentazione adottata dall’artista: quell’accusa di distacco dalla realtà che i critici tradizionalisti avevano rivolto prima al Modernismo e poi alle avanguardie del Novecento, adesso viene fatta propria da un rappresentante del contemporaneo e scagliata contro la pittura classicista (chiamiamola così semplificando) del Seicento. Sta di fatto che questa è un’accusa chiara: «Ammaliati e storditi dal mondo dove l’arte era bella, perdiamo contatti con questo. L'estetica, l’idea di bellezza, e così di società, rimangono marcate per sempre da questa magìa irreale che rimane separata dalla nostra vita». È fin troppo facile controbattere: ma di quale «realtà» si sta parlando? Da quale «realtà» un dipinto del Seicento ci taglierebbe fuori? Ma questo è, tutto sommato, un argomento secondario, di fronte ad altre considerazioni di Favelli.

 

Il problema infatti non sono certe ingenuità, che pure suonano stonate se si pensa che chi parla è un artista (l’arte del passato era «bella» e il nostro presente è «brutto»). Quello che più conta nel discorso di Favelli è il pensiero di fondo, che si condensa in frasi come queste: «Che ce ne facciamo oggi di un Ideale classico? Che ce ne facciamo di un dipinto dedicato a san Gregorio Taumaturgo?». Come si vede, le domande investono due piani diversi: il piano formale dell’arte antica (con un richiamo a L'ideale classico di Cesare Gnudi) e il piano iconografico (le immagini dei santi). Posso anche ammirare la pittura di un artista del Seicento come si ammira un classico, ma, alla fine, che interesse hanno per me i santi e gli altri temi religiosi? tanto più quando si tratta di figure lontane persino dall'immaginario dei credenti di oggi, come san Gregorio Taumaturgo. Il valore del quadro di Guercino per i suoi contemporanei e per gli uomini dei secoli successivi consisteva nella possibilità di apprezzarne proprio questi due livelli – usiamo pure queste distinzioni scolastiche – il soggetto e lo stile. Ora invece, dice Favelli, l’uno e l’altro sono sostanzialmente inutili («che ce ne facciamo?»).

 

Ne consegue – coerentemente – la proposta di cedere il nostro patrimonio in prestito: «un pesante fardello, un neonato sempre affamato a cui sacrifichiamo, in maniera scomposta, precipitosa e impulsiva, una mare di risorse che non gli bastano mai». Senonché, in questi anni, simili proposte di alienare o dare in prestito «ad aziende o enti abili o a paesi attenti, che hanno altre situazioni culturali ed economiche, capaci di amministrarlo in maniera produttiva» sono state avanzate da figure molte diverse da quelle di Favelli: opinionisti vari, sedicenti esperti, spesso uomini politici di varia collocazione, che, come è noto, sanno meglio di chiunque altro che cosa vuole «la gente». Insomma, la vecchia e trita idea dei «giacimenti culturali» che rispunta con vestiti nuovi. Ecco allora che il ragionamento di Favelli diventa di grande interesse perché – senza cautele ed eufemismi, ma con franchezza (bisogna dargliene nuovamente atto) – dà forma a opinioni quanto mai diffuse nel nostro paese ed esplicita un mutamento in corso non da pochi anni, ma da decenni.

 

Il punto della questione, infatti, non è tanto san Gregorio Taumaturgo o il linguaggio di Guercino – e più in generale il patrimonio storico-artistico – ma il ruolo del passato all’interno della visione del mondo che nutre la contemporaneità. Detto altrimenti: è cambiato profondamente il nostro sguardo nei confronti del patrimonio perché è mutato intimamente il nostro rapporto col passato nel suo complesso. Qui non si sta parlando, naturalmente, né degli addetti ai lavori, né di quelli che forse ancora qualcuno chiama «gli intellettuali». Si parla della comunità dei cittadini, nell’esperienza che fanno quotidianamente della propria storia e delle opere che costituiscono il lascito materiale di questa storia.

 

Si potrebbe obbiettare che espressioni come ‘sguardo verso il passato’ o anche ‘rapporto col passato’ sono comunque espressioni metaforiche; il passato, comunque lo si voglia intendere, è pur sempre una costruzione eretta dal presente. Bisognerebbe parlare, quindi, di ‘rapporto con una determinata costruzione del passato’. Potremmo dire, allora, che nei recenti decenni sono del tutto mutate le forme con cui si costruisce, si rielabora e si usa la memoria collettiva. Il passato, va da sé, è inattuale, ma non è mai stato così inattuale come oggi.

 

Qualcuno aveva annusato questo processo molti tempo fa. Verso la metà degli anni Settanta, sul «Corriere della Sera», Goffredo Parise scriveva così: «L’Italia non vuole più essere l’Italia. Gli italiani (parlo della grandissima maggioranza) non vogliono più essere italiani. Se ne fregano dei monumenti, dei musei, di San Pietro, della Chiesa cattolica, dei Palazzi Pitti e Uffizi; ci mandano i loro figli con la scuola, ma se ne fregano e se ne fregheranno i loro figli quando sarà il momento».

 

Non sarebbe difficile trovare altre prove di questo sguardo sul passato fatto di disinteresse, di oblio, se non addirittura di fastidio. Eppure, nel discorso pubblico di questi anni, la visione disincantata di Parise o – per altri versi – di Favelli sembra un'eccezione e capita di ascoltare molte più certezze che dubbi. Basta pensare alla facilità con cui sentiamo parlare di «bellezza» come dato acquisito e fuori discussione; e alla frequenza con cui, per indicare il nostro patrimonio storico e artistico, invece di «beni culturali» – espressione troppo vecchiotta? – si sente usare sempre più spesso il termine «bellezza». Possiamo anche immaginare che prima o poi si stabilizzi – per chiese, monumenti, dipinti, sculture … – l’espressione «grande bellezza».

 

Non saprei dire quando questa abitudine sia iniziata, ma certo un passaggio rivelatore sono stati un editoriale di Ernesto Galli della Loggia (La cultura come risorsa, Corriere della Sera, 22 luglio 2008) e la risposta che ne diede Sandro Bondi subito dopo. Galli della Loggia affermava ad esempio che «Istruzione e Cultura (…) hanno a che fare nella loro essenza con il Sapere, il Passato e la Bellezza, cioè con il cuore dell'identità italiana»; e ancora: «ciò che la tiene insieme [l'Italia] e la sua anima sono lì: nel Sapere, nel Passato, nella Bellezza»; per finire con l'invito «ai nostri ministri dell'Istruzione e della Cultura» [non c'è in Italia un ministero per la Cultura, ma per i Beni Culturali!] a mettere «il Sapere, il Passato e la Bellezza al centro di un alto discorso politico rivolto al futuro della collettività nazionale». Dire che l’identità italiana coincide con la «Bellezza» significa confezionare una bella frase, ma allora – per fare solo un esempio – non devono essere italiani quelli che dagli anni ’60 in poi hanno disseminato nel nostro paese condomini e villette di mediocre se non misera qualità architettonica.

 

 

Il giorno seguente, sullo stesso quotidiano, rispose l'allora ministro per i Beni Culturali, Sandro Bondi: «Quanto poi alla ‘bellezza’, ho da subito indirizzato il mio mandato a questo valore che insieme a Galli della Loggia ritengo imprescindibile»; e, ancora, «sono convinto anch'io, inoltre, che la bellezza [qui senza virgolette, ndr] sia un valore politico nel senso più alto del termine, perché genera ordine, induce all'imitazione positiva, e perché costituisce, specialmente in un paese come il nostro che rappresenta nel suo insieme lo spazio della bellezza, uno scrigno di informazioni e di valori indispensabili per progettare il nostro futuro».

 

Colpisce l'estrema genericità delle affermazioni dell'uno e dell'altro: che cosa vuol dire che l'identità italiana, la sua «anima» è nella bellezza (con la lettera maiuscola)? Di quale bellezza stiamo parlando? Che cosa si vuol dire quando si sostiene che la bellezza è un «valore politico», che è un «valore imprescindibile»? Naturalmente, i fatti seguiti a queste – che non sono neppure belle parole, ma emissioni retoriche – smentirono ampiamente le frasi del ministro: gli stanziamenti per i beni culturali (e non per la «Bellezza») diminuirono nuovamente rispetto agli anni precedenti.

 

Naturalmente la retorica della «bellezza» non ha avuto tregua negli anni seguenti e basta aprire un giornale per sentire il politico che si dichiara «sempre testardamente e tenacemente dalla parte della bellezza», nella convinzione, sempre tenace, che «la cultura (…) è l’anima di un paese e a maggior ragione in Italia, forse la più grande superpotenza culturale». Chiuso nel suo studio, invece, Albrecht Dürer, uno dei più grandi artisti del Rinascimento, confessava a se stesso «was aber die Schönheit sei, das weis ich nit» (ma che cosa sia la bellezza, io non lo so).

Da una parte c’è dunque il dubbio che i legami con la nostra storia si stiano irrimediabilmente sfilacciando (Favelli, ad esempio), dalla parte opposta c’è la celebrazione di valori «imprescindibili» e, tra questi, quello del passato (anzi del Passato). Sta di fatto che in questa divaricazione, negli ultimi anni, si è fatta strada tutta una serie di fenomeni sempre più incalzanti: una pubblicistica sempre più attenta a pseudo-scoperte (in prima fila quelle riguardanti Leonardo, anzi «Da Vinci»), una sequenza di mostre con obbligo di Caravaggi e Impressionisti a prescindere (chi avrebbe immaginato titoli come Tutankhamon Caravaggio Van Gogh?); fantasmagorie museografiche spacciate per raffinatissime operazioni culturali e artistiche; la tendenza a privatizzare, magari solo momentaneamente, beni culturali comuni; una progressiva riduzione del ruolo delle soprintendenze e un parallelo svilimento dei funzionari di musei, biblioteche, archivi (e non solo di quelli statali); una sistematica riduzione delle risorse economiche su tutti i fronti, tranne quelli sotto i riflettori dei mezzi di comunicazione di massa e tranne i casi in cui si possono realizzare “eventi” spendibili poi in caso di elezioni. E si potrebbe continuare a lungo, ma basta sfogliare gli scritti di Tomaso Montanari e Salvatore Settis.

 

Il fatto è che la reiterata celebrazione della «bellezza» nasconde, dietro il paravento dei propositi buoni per tutte le stagioni, un panorama desolante, simile a quello tracciato a modo suo da Flavio Favelli. Eppure, prima o poi, con questo panorama bisognerà pur confrontarsi, non per biasimarlo sdegnosamente, ma per comprenderlo.

 

Se infatti si considera la «bellezza» un dato acquisito e non l’esito di uno sforzo di comprensione e di un desiderio di conoscenza è perché si è realizzata in pieno la visione del mondo propria del kitsch: bellezze che salveranno il mondo, grandi bellezze, bellezze prêt-à-porter. La bellezza è a portata di mano ed è dovunque, nelle mostre comandate prima di tutto (a proposito, il quadro di Guercino era appena stato esposto in una mostra a Torino); pago il biglietto, entro in mostra ed ecco la bellezza. La bellezza come un prodotto. E se la bellezza è così diffusa – concentrata, per grazia ricevuta, sul nostro paese, naturalmente – alla fine che che cosa importa se si perde un quadro o due?

Le opere d’arte e le testimonianze materiali della storia sono per definizioni inattuali. Questa inattualità è solo una fastidiosa zavorra oppure è uno spazio di valori (si intende non solo e tanto in senso economico) anche per oggi? Al lavoro.

 

Questo articolo appare in forma diversa su “Taccuini d’arte. Rivista di arte e storia del territorio di Modena e Reggio Emilia”, 8.

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