L'Accademia Etrusca
Lucumo, basta il suono della parola a portarci lontano. Con questo nome, secondo alcuni eruditi romani della tarda età imperiale, venivano chiamati alcuni re etruschi. Nel 1727, quando fu fondata l'Accademia Etrusca di Cortona, la più alta carica venne chiamata proprio così: Lucumone.
Affibbiare questo nome arcaico al capo della nuova istituzione fu una decisione seria ma, allo stesso tempo, giocosa (anche se può non sembrarci così). Il fatto è che, dagli inizi del Novecento, l’irruzione delle avanguardie artistiche ha gettato in un cono d’ombra l’idea stessa di “accademia”, intesa come sinonimo di tradizionalismo e di arretratezza. Al contrario, le accademie che sorsero in Italia e in Europa dagli inizi del Seicento furono vivacissimi luoghi di cultura: il tentativo di queste associazioni fu infatti quello di avviare una nuova sistemazione dei saperi e di tenere in equilibrio l’orizzonte scientifico e quello umanistico.
L’Accademia Etrusca ebbe una nascita, per così dire, familiare. Nel 1726, Marcello Venuti si tirò dietro i fratelli più giovani, Ridolfino e Filippo, e altri amici di Cortona: con loro fondò l’Accademia degli Occulti (il ricorso a titoli bizzarri era un po’ una moda nelle accademie in Italia). La nuova associazione si proponeva – parole testuali – di “comprare annualmente a nostre spese alcuni libri d’erudizione e scienze, quali comodamente nella città nostra comprare non si possono”. In altre parole, la fondazione di una biblioteca locale. Si noti che Marcello aveva ventisei anni, e i fratelli erano poco più che ventenni.
Due anni dopo il nome cambiò in “Accademia Etrusca delle antichità ed iscrizioni”: non solo libri, ma anche le testimonianze materiali dell’antico passato.
Nel 1734, a breve distanza dalla fondazione, Marcello Venuti ricordava con orgoglio l’iniziativa di cui era stato artefice; queste le sue parole originariamente stese in latino: “solo pochi anni fa, su iniziativa e cura di alcuni nobili giovani, è stata fondata una ben nota associazione, l’Accademia Etrusca. Senza risparmiare spese, essi hanno messo assieme un museo ricchissimo e hanno deciso di aprirlo a vantaggio del pubblico, con l’obiettivo di raccogliere in particolare i monumenti degli Etruschi che in questa zona vengono continuamente alla luce”. Fin dall’inizio, dunque, l’intento era quello di giovare alla “pubblica utilità della Toscana tutta” come venne espressamente dichiarato nello statuto accademico.
Ciò che colpisce nell’avventura dell’accademia cortonese è la capacità di mantenere in equilibrio itinerari culturali diversi e potenzialmente divergenti: l’attenzione per la grande storia di Roma, ma anche per quella degli altri popoli italici; la cura per la realtà locale e l’apertura verso contesti culturali internazionali; l’importanza attribuita all’esame filologico dei testi, come anche all’analisi archeologica dei reperti; la centralità insostituibile dell’erudizione e l’interesse per la cultura illuminista.
In quegli anni, Marcello Venuti volle imitare proprio un’opera erudita di età imperiale, le Notti attiche di Aulo Gellio; nacquero così le Notti coritane, le serate in cui si discuteva insieme di tutti gli argomenti che interessavano agli intellettuali dell’epoca, la “Repubblica delle Lettere” come si usava dire allora in Europa.
E possiamo immaginare la soddisfazione con cui, di volta in volta, si registrava l’ingresso di nuovi soci. Nell’accademia cortonese, infatti, entrarono figure rinomate all’interno degli studi storici come Ludovico Muratori e Scipione Maffei, illustri antiquari come Johann Joachim Winckelmann, collezionisti del calibro del cardinale Alessandro Albani. Ma divennero soci dell’Accademia Etrusca anche celebrità estranee alla sfera degli studi storico-archeologici, come Voltaire e Montesquieu.
Più di un secolo dopo la sua fondazione, l’Accademia venne coinvolta – e non poteva essere altrimenti – nella vicenda della scoperta del lampadario etrusco. La proprietaria dei terreni in cui era fortuitamente emerso il bronzo nel 1840, Luisa Bartolozzi Tommasi, si rivolse all’allora direttore della Galleria degli Uffizi, Antonio Ramirez di Montalvo, prospettando la vendita di quello che definiva “monumento rarissimo”.
A quanto si capisce dal carteggio, le trattative andarono avanti, ma con incertezze da una parte e dall’altra: il problema era attribuire il prezzo adeguato al lampadario. Alla fine, la decisione della proprietaria fu sensata: lo cedette per 1600 scudi all’accademia.
A pochi anni dal ritrovamento e dal suo ingresso nel museo accademico, l’opera fu a disposizione di appassionati ed esperti, italiani e stranieri. George Dennis, nel suo grande saggio sulle città e sulle necropoli etrusche, pubblicato a Londra nel 1848, lo descrive così: “nel museo di Cortona, la meraviglia delle antiche meraviglie è un lampada di bronzo di una bellezza e di un’elaborazione così eccelse da mettere in ombra ogni opera di artigianato artistico scoperta finora in terra d’Etruria”.
© Il lampadario etrusco di Cortona. Daniele Portanome per Fondazione Luigi Rovati.