Speciale
Tempo di libri - incipit / I sotterranei, Jack Kerouac
Per contribuire a un momento d’incontro, approfondimento e scambio come Tempo di Libri, la fiera del libro che si terrà a Milano dall'8 al 12 marzo, abbiamo creato uno speciale doppiozero | Tempo di Libri dove raccogliere materiale e contenuti in dialogo con quanto avverrà nei cinque giorni della fiera. Riprenderemo i temi delle giornate - dalle donne al digitale -, daremo voce a maestri che parlano di maestri, i nostri autori scriveranno sugli incipit dei romanzi più amati, racconteremo gli chef prima degli chef, rileggeremo l' “Infinito” di Leopardi e rivisiteremo la Milano di Hemingway, rileggeremo insieme testi e articoli del nostro archivio, che continuano a essere attuali e interessanti.
“Ero una volta giovane e aggiornato e lucido e sapevo parlare di tutto con nervosa intelligenza e con chiarezza e senza far tanti retorici preamboli come faccio ora; in altre parole questa è la storia di uno sfiduciato che non è più padrone di sé e insieme la storia di un egomaniaco, per costituzione e non per facezia, – questo tanto per cominciare dal principio con ordine ed enucleare la verità, perché è proprio questo che voglio fare. Cominciò con una calda notte d’estate, sì, con lei seduta su un parafango quando Julian Alexander che sarebbe… Ma cominciamo dalla storia dei sotterranei di San Francisco”.
Intorno ai vent’anni mi innamorai di questo incipit letterario del quale mi sono disinnamorato solo oggi, 24 gennaio 2018, per le ragioni che spiegherò di seguito.
Il libro in questione è I sotterranei di Jack Kerouac (nella mia edizione – Feltrinelli, 1994 – alla voce “traduzione dall’americano” è scritto “di ANONIMO”). A dirla tutta, il mio amore, o dovrei dire la mia ossessione, riguardava più in generale l’opera complessiva di Jack Kerouac, ossia colui che – citando Henry Miller – “ha violentato a tal punto la nostra immacolata prosa, che essa non potrà più rifarsi una verginità”. Ma questo incipit, questo particolare incipit, negli anni a seguire ha martellato più di tutti nella mia testa, e così a lungo da avermi condizionato ogni volta che mi sono seduto al computer anche solo per stilare un protocollo d’intesa, o per scrivere una lettera velenosa alla mia compagnia assicurativa.
I sotterranei è ambientato nelle caves di San Francisco, popolate di droga, jazz, puttane e messicani “che fanno yayà nei locali”, e narra l’amore turbolento tra un bianco e una nera. Inizia con una frase piena zeppa di “e”: E, e, e, e, e… una congiunzione via l’altra, come un’ouverture suonata col charleston della batteria che mette subito in chiaro quale sarà il ritmo portante della serata. “Questa è la storia”, dice Kerouac. Va bene, ma quale storia? Qui si dà avvio ad almeno TRE storie, con TRE personaggi diversi (tre sé di un unico io schizofrenico): lo sfiduciato, quello che non è più padrone di sé e l’egomaniaco. Per poi, subito dopo, far entrare in scena altri due personaggi che non sono né lo sfiduciato, né quello che non è più padrone di sé, né l’egomaniaco, bensì una donna seduta sul parafango e un tale di nome Julian Alexander, che sarebbe… no, Kerouac non ce lo dice (a onor del vero lo svelerà nel paragrafo successivo). Perché l’autore sembra riconoscere di aver messo troppa carne al fuoco, perché ci ha già detto tutto e non ci ha detto niente, e perché prima d’ogni altra cosa deve trovare la chiusa del paragrafo, ed è una cosa che occorre fare nella dovuta maniera. E quanta umana, vezzosa debolezza in quel sì che l’anonimo traduttore ha messo tra le virgole: “Cominciò con una calda notte d’estate, sì, con lei seduta su un parafango” (nel testo originale c’è un ancor più vezzoso “ah”: “It began on a warm summernight – ah, she was sitting on a fender…”).
Ora, intorno ai vent’anni sentivo nell’incipit di I sotterranei, e in tutta l’opera di Kerouac, una sincerità dolorosa e commovente. Mentre oggi, da lettore scafato quale sono, oggi avverto la catena dello stile. Lo stile è il giogo che impediva a Kerouac di giungere alla verità; la completa, nitida, luccicante verità di qualsiasi cosa egli volesse raccontare. Lo stile è la sua prigione, la gabbia dalla quale non è mai evaso. Va bene, ma perché me ne sono accorto solo adesso? Forse una risposta ce l’ho: perché nel frattempo ho smesso di avere vent’anni.