La serie di Ricky Gervais / Andare avanti: After Life

7 Maggio 2020

Non fatevi distogliere dai contenuti delle sinossi; non abbiate paura di guardare. 

After Life, la serie tv Netflix scritta diretta e interpretata da uno dei comici più bravi al mondo, Ricky Gervais, racconta la storia d’amore più bella che una serie tv sia mai riuscita a farci vedere.

Il primo episodio della prima stagione comincia con il primo piano di una donna che ci interpella dallo schermo di un computer portatile. La sua testa è coperta, come quella dei pazienti che in chemioterapia hanno perduto i capelli. Ci sorride con gli occhi, guardandoci intensamente. Si sta rivolgendo al suo compagno, il controcampo adesso lo mostra. L’uomo la guarda, insonnolito e commosso, da un letto domestico disfatto, dove sembra che siano state combattute chissà quante notti senza dormire. Come se trovare la forza di rimettersi in piedi fosse impossibile, Tony indugia sul computer, ascolta le parole di Lisa, la sua richiesta di aver cura della loro casa, del loro cane, che entra in campo chiamando il padrone, e simbolicamente vale come il figlio da accudire. L’uomo poi si alza, va in bagno, dove ancora si trovano due spazzolini, e si muove per una casa invasa dall’incuria dove, ormai lo abbiamo capito, la donna che parlava dal computer non vive più. Dopo aver mandato giù una scatoletta di verdure al curry – l’unico cibo rimasto in credenza – Tony ricomincia a stare al mondo secondo una sequenza di rituali e di impegni che, episodio dopo episodio, ci abitueremo a ritrovare come simulacri seriali di una vita provvisoria ma sempre identica. 

 

 

 

Sono atti minimi di una quotidianità consumata dal protagonista giusto per far “trascorrere” il tempo e arrivare alla fine della giornata; gesti che scandiscono, ripetendolo proprio come una “stagione” che torna ogni anno (anche per questo il medium seriale fa significato), stringendo il cerchio doloroso di un lutto insuperabile. Tony porta il cane al parco, poi sta un po’ sulla tomba della moglie, dove a poco a poco fa amicizia con una vedova più anziana di lui che passa le ore su una panchina davanti alla lapide del marito. Riporta il cane a casa, litiga con il postino (un homeless con il quale piano piano nasce un’amicizia), va alla sede del giornale per cui scrive, un magazine gratuito distribuito porta a porta da un tossico; fa lo stronzo un po’ con tutti, come se non perdonasse al prossimo di voler vivere senza prendere sul serio la sua rabbia. (After life non è la storia di come Tony riesce a superare il lutto, ma di come faccia di tutto per non superarlo). Per svolgere il suo lavoro, Tony via via realizza delle interviste a gente comune, quelli della cui esistenza non ci accorgiamo mai, se non per i tre minuti di celebrità conquistati raccontando fatti fenomenali. In questa situazione, Toni e il suo collega entreranno in contatto, in ciascun episodio, con una grottesca e ridicola galleria di personaggi bizzarri, tanto che si potrebbero quasi definire dei freaks

 

Quando non è al giornale, Tony va nell’ospizio dove vive il padre, malato di Alzheimer, oppure dallo psicologo (un altro tipo eccentrico, egocentrico, logorroico, ossessionato dal suo fallo, scorretto, insomma l’antimodello caricaturale di tutto quello che dovrebbe fare chi cura la sofferenza). La vita del protagonista procede così, girando a vuoto, tutti i giorni, e senza trovare il coraggio di farsi fuori, malgrado Tony porti in tasca sempre una boccetta di sonniferi. Tuttavia, come in un muro dove impercettibilmente entra l’umidità, il sistema di negazioni con cui il protagonista fa resistenza alla vita nello scorrere delle settimane si indebolisce. Senza che succeda nulla di eclatante, ma grazie al lavoro del tempo e alla presenza delle esistenze circostanti che si infiltrano nella biografia di Tony, anche contro la sua volontà e possibilità di controllo. Il cognato, l’amica prostituta, il collega mangione, l’amica del cimitero, l’infermiera del padre con cui l’uomo comincia a scherzare e a innamorarsi un po’. Ognuno è una persona speciale proprio perché non ha nulla di speciale, come di solito accade ai personaggi qualunque presi di mira dalla grande tradizione della stand up comedy, a cui Gervais appartiene. Ma rimessi assieme, nel disegno complessivo (da poche settimane è arrivata la seconda stagione), questi tipi compongono una commedia umana meravigliosa e originale. Tra le ragioni di questo successo si possono intanto fermare tre snodi importanti.

 

 

 

Il primo è che After Life usa in modo creativo e non strumentale le risorse formali della narrazione seriale, come già si è visto, usando il tempo narrativo della serialità per scolpire il senso di progressione impercettibile dentro la circolarità ricorsiva di un dolore.

Il secondo motivo è che si mette in scena, servendosi di uno stile paradossale, proprio la situazione che più di tutte sembrerebbe estranea, anzi antitetica, all’amore come evento reale – abitato da fatti che accadono. After Life, infatti, racconta l’amore attraverso la separazione. Eppure niente diventa più serio e sostanziale dell’interesse con cui, progressivamente, ci identifichiamo nella vita “dopo la vita” di Tony, il protagonista; e niente può apparirci più disperatamente vitale del modo in cui, per oltrepassare il trauma di un cancro che la sta portando via, Lisa (Kerry Godliman) consegna al marito, e a noi che la guardiamo, episodio dopo episodio, messaggi d’amore e di cura per l’altro registrati sul computer, che la faranno esistere anche “dopo la vita”, non come idolo terribile, ma come raccomandazione di attenzione, per l’appunto, trasformando il dopo in una condizione ulteriore, più che postuma. 

 

Eccola, allora, l’anima più forte, ecco il senso più letterale e la chiave di quel titolo. Il vero soggetto di After Life non è la malattia, o la depressione di un uomo che ha perduto il grande amore della sua vita – sarebbe una storia patetica, come tante altre già raccontate. Al centro della rappresentazione, senza l’apparenza di farlo, After Life fa vivere e tiene in vita, tecnicamente, l’esperienza più creativa e amorosa che due persone possono inventare e far durare: la relazione – in questo senso Lisa è protagonista come Tony. Così, quei dodici episodi (sei più sei) delle due stagioni compongono il bene più prezioso ma anche il più vulnerabile di una vicenda d’amore; partendo, questa è la forza di After Life, dalla posizione prospettica più lontana e strana per raccontare una relazione: quella dell’assenza. 

 

Il terzo punto importante è quello più complesso e intorno al quale convergono e fanno sistema significanti e significati, forme e motivi di After Life, perché riguarda la memoria. Come si fa a ricordare e a rendere comunicabile e memorabile un’esperienza di perdita e di dolore? («Non mi manca fare cose con Lisa, mi manca non fare niente con Lisa, stare a casa»: seconda stagione, terzo episodio). Come si può riuscire a farlo senza autocommiserarsi e basta, senza essere patetici? Come si può sperimentare, anche in senso fittizio e creativo, che la memoria non è contenere (controllare) tutto, ma pure lasciar andare? Sono tutte questioni di cui After Life vibra dal primo all’ultimo fotogramma, persino nel finale, con la macchina da presa che lentamente e finalmente si alza al di sopra delle vite, delle abitazioni, della cittadina, allontanandosi come se fosse un angelo. Sono questioni che non si pone solo Tony, in quanto protagonista, ma che agisce come fuoco simbolico dell’intero progetto, e ci vengono restituite in ogni dettaglio tanto formale quanto tematico (per esempio, anche attraverso la malattia del padre, l’Alzheimer, la patologia di chi non si ricorda quasi più nulla, accrescendo anche di più l’affanno da perdita di senso del figlio). 

 

 

Il bisogno di memoria, come condizione vitale dell’io, è il nodo simbolico decisivo, pur senza essere mai rivelato, a cui rimandano anche i protagonisti delle singole interviste. Si potrà trattare, infatti, di aver ricevuto ben cinque biglietti d’auguri, o di suonare due flauti con il naso, o di trovare sul muro una macchia che assomiglia a Kenneth Branagh, o di parlare coi gatti, o di truccare il proprio bambino da Hitler, o di essersi rifatta tutto il corpo trasformandosi in una creatura mostruosa, o di imbucare per sbaglio la posta nella cassetta per la cacca dei cani. Appena l’occasione esplicita del racconto della vicenda strabiliante si conclude, e Tony chiede al suo collega di fare una foto, ecco che arriva, in maniera obliqua, la vera verità di quelle singole persone. Sono tutte, sempre, creature umane incapaci di raccontare la propria vera storia di lutto, di perdita, di dolore, e che allora usano espedienti discorsivi trasversali. Persone sole, come anche gli altri colleghi della redazione, perché l’assenza della relazione, come è successo a Tony, comporta una perdita dell’autostima, e viceversa. E questo trauma del sé ferisce anche la memoria, perché rischia di trasformarla in un magazzino pieno di rimanenze (come la casa del personaggio affetto dalla sindrome dell’accumulo), di cose che non si riesce a eliminare, di ricordi anche inutili e ingombranti. Diventa ipertrofìa, energia vitale bloccata. Ecco perché questo «branco di falliti» – come Tony definisce i suoi amici al proprietario del giornale – fa comunità con il dolore del protagonista e lo stanerà dal suo lutto. Perché, come dice Lisa, «non siamo qui solo per noi stessi». 

 

Così, la sofferenza fuori campo, quella che sarebbe stato osceno, patetico e banale raccontare, viene fuori, in After life, di traverso e nella maniera più realistica e potente. Ma un simile modo di procedere per livelli interposti non riguarda solo i singoli personaggi, perché è una strategia testuale complessiva – e proprio questo è l’aspetto più originale, in senso filmico e formale, di After life. Come la vecchietta intervistata che usa il filtro della sua fenomenale conoscenza del linguaggio dei gatti per far intravedere la sua condizione di perdita, After life mette in scena l’esperienza di sofferenza luttuosa del protagonista attraverso tre piani narrativi e visuali che si intersecano: quello dei videomessaggi della moglie, dall’ospedale; quello dei filmati amatoriali che testimoniano la loro storia (piena di giochi, di scherzi, di risate); e quello della vita presente. Questo corpo filmico fatto di tre anime narrative compone la forma umana del dolore di Tony e della sua esperienza faticosa di rielaborazione, perché l’uomo non riesce a appartenere più a nessuno di questi tre livelli. Questa è la sua malinconia. 

 

«Provo a rendere la banalità più assoluta vagamente interessante», dice Tony alla stagista angloindiana a cui sta insegnando il suo lavoro. Sono parole che vanno bene anche per la poetica di After life. Sotto l’apparenza di farci vedere solo gli aspetti banali della condizione di Tony e di tutti gli altri (noi compresi) come esseri provvisoriamente attaccati a una quotidianità, il montaggio di After life crea un tessuto discontinuo che imita e restituisce il senso di precarietà del suo protagonista; ma è anche una riflessione interessantissima – in questi tempi anche di più – sulla nostra nuova esperienza della memoria all’epoca dei mezzi digitali, che possono farci rivivere, dentro ogni momento e ogni spazio, i nostri ricordi. Che d’altra parte sono ricordi: importanti, ma ricordi, e basta; ai quali bisogna ricominciare anche a sottrarsi. Come dice Lisa, la vita è preziosa perché non puoi riguardarla di nuovo. After Life non è solo “dopo la vita”, ma la vita che viene e che deve venire. Dopo. 

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