11 settembre
Chi ha progettato l’attentato dell’11 settembre 2001 sapeva che si sarebbe trattato di un avvenimento eminentemente visivo. Migliaia di telecamere, videocamere, cellulari, macchine fotografiche, e altri mezzi di registrazione, sarebbero stati attratti e ipnotizzati dal profilo dei due grattacieli in fiamme, così da registrare l’incendio, e poi in successione il crollo delle Twin Towers. Anche la sequenza dell’impatto del secondo aereo contro il monolite di acciaio e vetro era stata con ogni probabilità immaginata come un ulteriore shock visivo, un raddoppiamento dell’avvenimento, una sua ulteriore elevazione all’ennesima potenza ottica. E così è stato.
L’occhio di vetro delle telecamere ha prodotto un inarrestabile replay, accresciuto, come ha visto Clément Chéroux, storico della fotografia, dal fatto che le principali stazioni televisive americane, e poi quelle del resto del mondo, trasmisero per ore e ore inloop le immagini dell’impatto e del crollo. Inoltre, le istantanee dell’avvenimento, che tra qualche giorno saranno esposte a Milano a Palazzo Reale, nella mostra intitolata 11.9 il giorno che ha cambiato il mondo (Fondazione Forma), si allineano su una modalità visiva omogenea, fondata su pochi elementi: l’aereo, l’esplosione, la nuvola, la rovina, il panico e la bandiera americana. Gli attentatori pianificarono tutto questo, oppure si è trattato di un imprevedibile accadimento?
Mohamed Atta, uno dei dirottatori che ha guidato il gruppo dei kamikaze mussulmani, l’uomo di cui, tra l’altro, possediamo una memoria visiva registrata dalle telecamere dell’aeroporto d’imbarco della cellula suicida, si era laureato in architettura a il Cairo. Deyan Sudjic in Architettura e potere (Laterza) ricorda che il giovane arabo aveva studiato, non solo architettura dei paesi africani e mediorientali, ma si era allenato a disegnare e analizzare i problemi costruttivi degli edifici: come fanno a essere eretti e a stare in piedi. Poi nel 1992 si era specializzato ad Amburgo alla Technische Universität Hamburg-Harburg, dove aveva scritto una tesi sul conflitto tra l’urbanesimo islamico tradizionale e la modernità, licenziata col massimo dei voti, che recava la seguente dedica: “Il mio sacrificio e la mia vita e la mia morte sono tutti dedicati ad Allah, il Signore del mondo”. È abbastanza facile per noi pensare che tra la partecipazione del dott. Atta al comando degli attentatori e la deliberazione di colpire il Trade World Center vi sia una stretta connessione. Se anche così non fosse, se non è stato Atta a indicare le Torri gemelle come obiettivo, basta ritornare alla loro forma e al loro significato per capire come l’obiettivo visivo e simbolico delle Twin Towers fosse altamente significativo.
Minoru Yamasaki, l’architetto di origine giapponese nato in America, che le aveva progettate, non è entrato nella storia dell’architettura contemporanea per la sua fama artistica e progettuale, bensì per il suo legame coi crolli. Almeno due delle sue costruzioni, di cui andava orgoglioso e fiero, sono state infatti demolite. Oltre al TWC anche le case popolari del progetto Pruitt-Igore di Saint Louis, diventate tristemente famose per il degrado urbano che avevano generato; costruite nel 1955, esse furono demolite con l’esplosivo nel 1972, l’anno stesso del completamento delle Twin Towers. Sudjic ricorda che oltre all’impatto visivo sul profilo di Manhattan, i due monoliti svettanti, per diversi anni i più alti edifici del mondo, avevano un’altra prerogativa. Chiunque attraversasse la piazza sottostante le Torri percepiva il peso fisico che quei piani incombenti esercitavano sui passanti, al punto tale da rendere quasi impossibile il cammino: attraversare lo spazio antistante i due grattacieli era come passare attraverso una stretta fessura praticata nello spessore di un muro monolitico.
Chi ha progettato l’attentato deve aver ispezionato quello spazio e quindi provato quel senso di annichilimento, così da deciderle istintivamente di abbatterle. Alla volontà di costruire, di erigere, si contrappone sempre l’opposto: la volontà di distruggere. Le due cose sono indissolubilmente legate, scrive Sudjic, e la figura di Atta lo mostra in modo palese. Ma forse il motivo più evidente della scelta degli attentatori risiede nel fatto che il TWC era stato pensato, alla metà degli anni Sessanta, come un segno della ripresa di New York, una dimostrazione di forza economica e culturale. Così aveva funzionato nei quasi trent’anni della sua esistenza: l’icona della capitale mondiale del capitalismo, il segno visivo di NY; poiché i grattacieli sono stati, e in parte sono ancora oggi, il segno visivo del futuro delle città, cui si rivolgono le ambizioni dei costruttori e soprattutto dei politici. Atta e i suoi compagni non potevano scegliere meglio il simbolo dell’odiata America da colpire. Le Twin Towers sono divenute grazie all’attentato la dimostrazione tangibile della “memoria-ripetizione”, dell’età della commemorazione, come la chiama Pierre Nora. Il look è diventato un loop, un nastro che gira su se stesso facendoci rivedere sempre le medesime immagini: coazione a ripetere. Forse questo era il vero obiettivo del raid suicida, fissare per sempre un segno iconico, da cui non sembriamo capaci di sottrarci.