A tavola con gli Atridi / Santa Estasi di Antonio Latella
La tragedia greca è uno spettacolo per stomaci forti. Nelle storie del mito trovano diritto di cittadinanza matricidi, infanticidi e persino episodi di cannibalismo: proprio un tremendo banchetto di carne umana segna l’origine della storia degli Atridi, e ne sancisce il fatale sviluppo.
Non stupisce, allora, che Antonio Latella abbia pensato di iniziare e concludere Santa Estasi – una maratona di otto spettacoli dedicata alla sanguinaria famiglia del mito – proprio su un tavolo da pranzo. È tra i piatti di portata, del resto, che si consumano gli orrori: il capostipite Atreo, scoperta l’infedeltà della moglie Erope e del fratello Tieste, si vendica servendo a quest’ultimo le carni cucinate dei suoi figli. Ma, a ben guardare, cosa significa per i Greci l’atto di mangiare un altro essere umano? La portata destabilizzante del cannibalismo è legata, prima che alla morale, al mancato rispetto per le regole del vivere civile: se la cultura del cibo e i riti codificati del banchetto ci rendono parte di una comunità, eccedere dalla norma non può che portare a conseguenze irreversibili.
Latella gioca, fin dalle prime scene, su un contrasto del tutto equivalente: quello tra gli scenari di una casa borghese – con tanto di forno elettrico e di calici per il vino – e il metafisico contagio di colpe contaminanti e ataviche. Gli interpreti della saga sono vestiti con giacche e vestiti eleganti, e la bionda Clitemnestra dai capelli corti e vestito aderente sembra quasi Claire Underwood: eppure non c’è proprio nulla di borghese nella tragedia greca di Antonio Latella. Le istanze più scabrose del tragico sono scandagliate senza moralismi, gli atti di violenza non vengono mai trasposti o edulcorati, il propagarsi della colpa si dispiega implacabile attraverso le generazioni. La maratona degli otto episodi – ripresentata in occasione del Festival Vie al teatro delle Passioni di Modena – è, da questo punto di vista, un esteso campo di indagine: attorno al nucleo dell’Orestea di Eschilo, si costruiscono i prequel (Ifigenia in Aulide, Elena), e i sequel (Oreste, Elettra, Ifigenia in Tauride), tutti euripidei. Le molte ore di spettacolo non sono finalizzate – come accadeva invece in Mount Olympus di Jan Fabre – a un’indagine sui meccanismi della ricezione: la lunga partitura spettacolare è piuttosto pensata per una profonda immersione intellettuale negli ingranaggi del tragico, e costruita attraverso fitti richiami interni. Gli oggetti di scena cambiano di posizione e di segno, il palco si riempie e si svuota, e i sedici giovanissimi e notevoli interpreti (allievi della scuola di Alta Formazione di ERT) si alternano sui diversi ruoli provocando alcuni interessanti cortocircuiti di senso: per esempio Toante, re scienziato che custodisce Ifigenia tra i Tauri, ha le stesse sembianze dell’amato-odiato padre Agamennone.
Non solo. Santa Estasi propone, di fatto, un doppio intervento interpretativo sulle opere antiche: da un lato l’attraversamento visionario ma limpido della regia, dall’altro la riscrittura di otto giovani drammaturghi che hanno firmato un episodio a testa, seguendolo anche come assistenti alla regia. Gli autori, per lo più, si sono tenuti in sottile equilibrio tra il rispetto delle strutture e la sperimentazione sul linguaggio, concedendosi talvolta riuscite aperture metatetrali (così, per esempio, la interessante Oreste di Pablo Solari). Latella, di contro, ha immaginato le geometrie e i simboli presenti in scena (cavalli, porte, mele) come detonatori per portare alla luce le tensioni interne al testo: i rapporti di forza tra i personaggi vengono spesso interpretati ed esplorati in chiave psicanalitica (Agamennone/Elettra, Clitemnestra/Oreste, Elettra/Oreste), e l’intera atmosfera dello spettacolo è quella densa e angosciosa del sogno.
Sedici attori, otto drammaturghi, due poeti tragici antichi, e un regista dal forte piglio autoriale: la cooperazione di tante personalità poteva dare origine a un prodotto caotico e sovraccarico. Il risultato, anche grazie alla mano decisa ma non dispotica di Latella, è invece uno spettacolo coerente e di straordinario interesse. Tra gli episodi, i meno riusciti paiono quelli ispirati dalla tragedia eschilea, che pur fornisce l’ossatura della narrazione: il mondo del più arcaico dei tre tragici poco si adatta al linguaggio dirompente e iper-contemporaneo di Latella, e il risultato finisce per essere meno incisivo. Non stupisce invece scoprire una maggiore sintonia tra il regista e la scrittura contaminata e sperimentale di Euripide.
Trovano perfetta realizzazione scenica alcune delle istanze più note del drammaturgo: le intersezioni tra i registri espressivi, la continua alternanza tra tragico e comico, la goffaggine e la contraddittorietà di molti personaggi (su tutti, l’interessante Oreste di Christian La Rosa). Si ha l’impressione, in definitiva, che quelle forzature e quegli sconfinamenti di genere – che resero Euripide poco amato dai suoi contemporanei e che preludevano alla dissoluzione di una certa prassi teatrale – lo rendano oggi un autore più che mai adatto al radicale linguaggio scenico di Antonio Latella.
La conclusione della maratona è affidata invece a un testo spurio, firmato da Linda Dalisi e dedicato all’ultima erede degli Atridi, Crisotemi. Rimasta sola, costretta a convivere con ricordi altrui, e negletta dai drammaturghi di tutti tempi, Crisotemi siede a tavola e prepara una cena che non si farà. L’attesa, talvolta, può essere dolorosa come un banchetto di sangue.