Whitechapel Gallery / La collezione come racconto
Alla Whitechapel Gallery di Londra le parole di Enrique Vila-Matas, Maria Fusco, Tom McCarthy e Veronica Gerber Bicecci incrociano le opere della collezione “la Caixa” per “promuovere un nuovo modo di guardare”. Ognuno dei quattro scrittori ha scelto un gruppo di opere trasformandole in protagoniste di una narrazione che si svolge sia nello spazio espositivo che nel libro che accompagna la mostra. La narrazione di McCarthy (la mostra da lui “scritta” e curata è la terza dopo quella di Vila-Matas e di Fusco) inizia con la descrizione di un residuato bellico fotografato dall’artista Sophie Ristelhueber.
Sfruttando l’ambivalenza del termine “face”, che sta sia per “superficie” che per “volto”, McCarthy attribuisce all’oggetto una sembianza umana: “a fallen Easter Island statue; Ozymandias’s broken bust – una statua caduta dell’isola di Pasqua; il busto spezzato di Ozymandias” (Tom McCarthy, Empty House of the Stare, Fondazione “la Caixa” e Whitechapel Gallery, Londra 2019, p. 17). Il viso sfranto e mezzo sepolto che giace sul suolo desertico descritto da Percy Bysshe Shelley nel sonetto dal titolo Ozymandias (“half sunk a shattered visage lies”) è evocato nel testo di McCarthy anche attraverso l’aggettivo “lidded” (riferito ai due oblò rotondi del marchingegno), derivato dal sostantivo “lid – coperchio”, che in questo contesto narrativo richiama alla mente di chi legge anche “eyelid – palbebra”. Con una prosa caratterizzata da associazioni fonetiche e semantiche, McCarthy porta l’attenzione sull’arroganza del potere e, insieme, sulla sua caducità spostandosi dalla fotografia di Ristelhueber al sonetto di Shelley, dal romanzo L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon al film Illuminer di Steve McQueen. Attraverso parole che ne contengono e ne richiamano altre, McCarthy esplora immagini fotografiche, plastiche, pittoriche e cinematografiche facendo da queste emergere immagini letterarie. Le parole e i loro elementi costitutivi si combinano fra loro e con le opere in mostra in una nuova forma di scrittura critica.
L’ingresso del discorso sull’arte nella letteratura è di vecchia data. Dai primi trattati sulla téchne, finalizzati a trasmettere agli allievi di bottega il cosiddetto know-how o l’abilità del fare qualcosa di specifico, si sviluppa una storia dell’arte come genere o sotto-genere letterario alla quale Salvatore Settis ha dedicato il saggio La nascita (in Grecia) della storia dell’arte, in Vitruvio e l’archeologia a cura di Paolo Clini (Marsilio, Venezia 2014). Il saggio ripercorre lo sviluppo di questo genere da uno dei primi testi che in età ellenistica inaugurarono l’ingresso del discorso sull’arte nello spazio letterario (i due trattati Sui pittori e Sulla scultura in bronzo di Duride di Samo, 340-280 a.C. circa) fino all’opera di Winckelmann, passando attraverso la Naturalis Historia di Plinio, i Commentari di Lorenzo Ghiberti e le Vite di Vasari.
Se la codificazione del vocabolario del giudizio d’arte con parole tratte dal linguaggio retorico, in età ellenistica, influenzerà la critica d’arte dei secoli successivi giungendo fino a Winckelmann e oltre, che conseguenze avrà sul giudizio critico la scrittura ipertestuale di McCarthy (due volte finalista al Booker Prize), caratterizzata da dialoghi serrati e cinematografici e da un taglio visivo sulle azioni, come rileva la sua traduttrice italiana Anna Mioni nell’intervista rilasciata il 28 luglio 2017 alla casa editrice SUR?
Il titolo della mostra “scritta” e curata da McCarthy, Empty House of the Stare, è tratto da un verso della poesia Meditations in Time of Civil War di William Butler Yeats. L’ambivalenza del termine “stare”, che può essere usato sia per identificare il chiassoso uccello che si raduna in stormi che per significare la fissità dello sguardo, collega punti lontani fra loro: lo sguardo di Steve McQueen, che si filma mentre guarda un documentario sull’addestramento militare, allo sguardo dell’assassino nel film Peeping Tom di Michael Powell; il crollo dei sistemi di sorveglianza e controllo dei media alla libreria metallica contorta, trovata dopo il crollo delle Torri Gemelle, scelta da Isa Genzken come possibile memoriale; l’installazione di Pedro Mora composta da bobine di zinco, che non offrono alcun indizio sulla lettura e il possibile recupero della memoria, al film Tutta la memoria del mondo di Alain Resnais; la guerra che svuota e rovina le case nella poesia di Yeats alla camera oscura costruita da Eugenio Ampudia.
L’artista spagnolo ha costruito un modello di spazio abitabile scavando l’interno di ottanta cataloghi. Poi ha scattato una foto che ha ingrandito e stampato su pellicola per pannelli retroilluminati (lightbox) simulando un interno con delle scale in prospettiva che conducono a una porta. La sequenza dei piani di profondità ricorda il soffietto pieghevole di una fotocamera con obiettivo anteriore, che colloca virtualmente il visitatore nel buio di una camera oscura. La casa vuota di Yeats e la camera buia di Ampudia, lo storno e lo sguardo fisso… La mostra Empty House of the Stare nasce dai meccanismi della lingua e dalla prosa ipertestuale di McCarthy, nel contesto di un discorso sull’arte divenuto nel corso del tempo un genere o sotto-genere letterario, che il progetto londinese sottopone a una serrata sperimentazione.
Nella mostra Cabinet d’amateur, an oblique novel (la prima delle quattro) Enrique Vila-Matas esplora l’ambiguità dell’esperienza con un mix di finzione e saggistica. Maria Fusco sperimenta invece la scrittura d’arte come pratica interdisciplinare. Per la mostra Nine qwerty bells (la seconda della serie) ha messo in scena degli incontri. Uno di questi è quello fra il silenzioso video Astonishment, Disdain, Pain and So On di Esther Ferrer e il ritmico The History of the Typewriter Recited by Michael Winslow di Igacio Uriarte. Una giovane donna in un interno di Cindy Sherman osserva con curiosità l’incontro. Cosa avrebbe fatto la scrittrice messicana Valeria Luiselli che avrebbe dovuto curare la quarta mostra, dopo quella di McCarthy? Non lo sapremo perché il programma alla Whitechapel è nel frattempo cambiato. Il quarto episodio del progetto è stato assegnato a Veronica Gerber Bicecci (In the Eye of Bambi, dal 14 gennaio al 19 aprile). La narrativa di Bicecci esplora gli effetti della catastrofe umana e ambientale sul linguaggio e sul paesaggio in uno scenario fantascientifico post-apocalittico.
Alla Whitechapel Gallery è in corso una sperimentazione della scrittura d’arte e della curatela promossa in collaborazione con la fondazione bancaria “la Caixa”. Auspichiamo che una ricerca in questa direzione trovi anche in Italia spazio e sostegno.