MASI, Lugano / I cani-uomo di William Wegman
Sono umani, sono come noi. Il percorso di William Wegman riflette (e anticipa) quanto è avvenuto nella relazione sapiens-cane negli ultimi quarant’anni. I cani hanno fatto ingresso nelle case, hanno abbandonato il ruolo di subalterni e ci sono diventati pari. Li pettiniamo, li vestiamo, li coccoliamo, li accudiamo come i nostri eterni bambini. Possono stare con noi sempre, ogni barriera è caduta. Dormono con noi, intrufolati tra le nostre gambe. Guardo i cani di Wegman. Sono 200 foto in mostra al MASI di Lugano, le vedo per la prima volta, ma mi dicono che per gli americani sono immagini generazionali, comparse un po’ ovunque, dai calendari alle pubblicità.
Sono immagini con cui ci sono cresciuti insomma quelli che erano bambini negli anni Settanta. Polaroid, perlopiù, belle, che non si possono non guardare. Perché in quell’immagine c’è qualcosa che è accaduto, qualcosa che noi abbiamo fatto a loro e che loro si sono lasciati fare. I cani sono tra i più affascinanti che si possano immaginare, i grigi elegantissimi Weimaraner con gli occhi d’azzurro perforante. Wegman li ha cominciati a fotografare quando il primo di loro, Man Ray, è entrato in casa sua, sembra contro la sua volontà, era la moglie a desiderare il cane. Ebbene, lo spiega William Ewing, curatore della mostra (e del libro del 2017), da quel momento i Weimaraner diventano la musa di Wegman. Alla musa si attribuisce un’azione nei confronti del poeta, lo aiuta a comporre, a superare il mare in tempesta della creazione. Che fanno in realtà le Muse? Dormono nella testa dei poeti come un’idea tra le idee? O sono le vittime e gli alibi e i falsi doppi degli animi inquieti?
La musa è inerte o attiva? Detto altrimenti: è Wegman che ha costruito quei cani-umani, being human, esseri diventati umani? O sono loro, seriosamente giocosi, impassibilmente disponibili a farsi fare qualunque cosa, immuni dal senso del ridicolo, ad averlo costretto a giocare allo scambio dei ruoli? La virata verso i cani che diventano noi ce la siamo inventata completamente perché siamo atomizzati, senza figli, egoisti, iperprotettivi, o ce l’hanno suggerita i nostri compagni, i da sempre amici dell’uomo, che mai come in questi decenni hanno saputo interpretare bene i nostri immedicabili vuoti? Ma che scemenza è questa, direbbe il razionalista. Che c’entra la volontà del cane. Il cane è materia nelle mani dell’artista che gli fa fare la parte che Lui, l’artefice ha voluto, così come è nelle mani del “padrone” che lo traveste da damerino, che lo sistema nel passeggino, che gli mette il cappottino, che gli trova pappe deliziose e, immancabilmente, spende parole allo zucchero postando la sua immagine sul social di pertinenza. Eppure guardando Wegman il ragionamento per assurdo che i suoi cani – e poi tutti i cani – abbiano contributo in prima persona (mai come in questo caso la parola è centrata) a costruire qualcosa con noi mi sembra evidente. Saremmo dunque dentro alla svolta. Saremmo (continuo ad usare il condizionale che solo mi può permettere di rimanere qui tra noi, di non smarrirmi definitivamente) appena entrati nella strana Storia del Canuomo (per dirla con il neologismo coniato alcuni anni fa da Asor Rosa)?
I cani di Wegman sembrano poter fare qualunque cosa. Possono essere il malinconico travestimento di “Masquerade”, lo straniante depistaggio di “Hallucinations”, il disinvolto posare di “Vogue”, l’inquietante contro gioco di “Zoo”, il disturbante effetto di “Nudes”. Mescidano nature, giocano con i nostri vestiti e con i nostri sguardi, possono diventare citazione di opere d’arte (Constructivism) e contorsionisti in posa tra gli oggetti o controfigure di personaggi della storia. Nulla sembra loro impossibile.
Questa straordinaria plasmabilità del cane, questo suo assumere la forma che noi vogliamo, è l’effetto più duraturo delle fotografie dell’artista americano. Osservandole si riesce a tratti a intuire quanto profondo sia diventato l’incontro tra le specie, quanto ogni umanesimo sia anacronistico, quanto sia diventato impossibile cercare di capire qualcosa di noi senza di loro.
Sosto davanti a “Casual”, foto del 2002 che è stata scelta come locandina della mostra. La testa del Weimaraner è leggermente inclinata verso la sua destra, lo sguardo esprime un’attenzione disinvolta, amichevole. Uno stare al mondo senza troppi pensieri. La stessa idea che arriva dalle braccia che corrono lungo il corpo per infilarsi in tasca. Sono braccia vuote, che simulano gli arti umani. Ma, pur non essendoci, si leggono come segnali di abbassamento della guardia, di resa soddisfatta al ritmo diverso di una giornata non lavorativa. Collana rossa e calzoni dello stesso colore si abbinano alla maglia e suggeriscono sensazioni di pomeridiana stravaganza, eleganti soluzioni estemporanee di un gentiluomo di campagna.
Provo a pensare a una testa umana al posto di quella del cane. Non riesco a farcela stare, per nulla. È come se per quel corpo l’unica possibilità fosse avere quel muso marrone da malinconico bracco. E mi sembra che questo sia il definitivo congedo dalla pretesa superiorità della nostra specie. Su quel corpo ci può stare solo un cane. Il Canuomo, appunto.
William Wegman, Being human, Masi, Luhano, fino al 6 gennaio 2020