È difficile il tempo giusto del saluto / Gianmaria Testa oltre il muro di una stanza

31 Marzo 2016

Dopo una lunga interruzione dell’attività concertistica, dovuta a un tumore incurabile, Gianmaria Testa era tornato l’anno scorso nel cortile della Scuola Holden, e seduto su una sedia, senza la sua chitarra, aveva detto che le conseguenze della malattia erano due: non riusciva più a suonare la chitarra, si sarebbe mangiato qualche parola. Poi lesse una poesia in cui nominava tutte le cose che di fronte al congedo dalla vita secondo lui avevano valore: ce n’erano tante, ma soprattutto c’era il senso di fare parte di un tutto, e la mesta serenità di riassegnarsi al tutto.

Era nato a Cavallermaggiore, nella piana tra Torino e Cuneo, nel 1958. Viveva nelle Langhe. Lavorò a lungo nelle Ferrovie dello Stato, e prima di fare il “non mestiere” per eccellenza, ovvero il musicista («che lavoro fai?» - il musicista «Sì, ho capito, ma come lavoro, dico?» è un tormentone su cui anche lui scherzava) era capostazione a Cuneo. Come Paolo Conte, avvocato di Asti, era cantautore a modo suo; cioè, in Italia era un cantautore come ce n’erano in Francia nel dopoguerra sino agli Sessanta: intellettuale, poco allegro, capace di creare mood eleganti; infatti, come Paolo Conte, era adorato dal pubblico francese, e le sue date all’Olympia di Parigi erano sempre esaurite.

Cosa piaceva di questo cantautore ai francesi e – poi – anche agli italiani? Soprattutto il suo essere –autore. Perché cant-are non cantava molto. La sua, come quella di Conte, era una declamazione intonata che si fondava su testi di respiro letterario. Conte gioca con le citazioni musicali, nostalgiche di ritmi e atmosfere vintage, Testa no. Faceva indubbiamente chansons, di atmosfera struggente, ma la sua chitarra non esagerava mai: minimalista, appena citava profumi di jazz pacato, e anche gli arrangiamenti della sua piccola band agivano con discrezione. A occhi bendati il suo modo di declamar-cantando aveva un timbro similissimo a quello di Ivano Fossati. E in certi arrangiamenti rock a volte ricordava anche il declamar-urlando di Vasco Rossi. Come Vasco narra la sua epopea di tristezza di eterno giovane “rock” che si sente a disagio nel mondo, Testa ha raccontato in versi malinconici ma mai disperati nel senso di Pavese, per restare tra le Langhe e Torino, il disagio di generazioni consapevoli di sentire come tutto intorno si stesse facendo cinico e antipatico.

A cinquant’anni comincia a morire gente che conosci, e devi andare a funerali in cui rivedi gli amici del Liceo, grigi come te, rugosi come te, e sussurri “pazzesco se ne è andato in un lampo…” In una canzone, Lasciami andare, di uno dei suoi non molti dischi (Vitamia del 2011) Testa raccontava già questa sensazione, con la sua consueta modesta adesione al sentire comune, che lo rendeva così amabile a chi lo aveva conosciuto personalmente:

 

Non sono venuto per salutare

perché io non lo capisco

il tempo giusto del saluto

che trova le parole

e toglie la distanza

e poi libera le mani

lascia guardare

di là dal muro di una stanza

guardare…

Non torneremo mai

sui nostri passi mai

non torneremo più

o solo a ricordare

che il tempo del ricordo

è il tempo del ritardo

e non fa ritornare…

Lasciami andare

 

Il 26 febbraio 2016 sulla sua pagina Facebook aveva annunciato «molto felice» che il 19 aprile uscirà per Einaudi il suo libro Da questa parte del mare, con una prefazione di Erri De Luca, «il racconto dei pensieri, delle storie, delle situazioni che hanno contribuito a dar vita ad ognuna delle canzoni di quell’album e un po’ anche il racconto di me e delle mie radici». Uscirà anche una ristampa in vinile di quell’album del 2006.

 

 

Il 30 marzo 2016 Gianmaria Testa ha dovuto andare, a 57 anni, per un tumore di cui aveva voluto parlare, perché diceva che non bisogna avere paura, bisogna nominarlo. Lui amava scarnificare il linguaggio, come il suo amato Ungaretti, non amava che la gente urlasse ai suoi concerti, perché lui non si definiva «un urlatore». Raccontava sommesso a chi non se li sapeva raccontare amori, solitudini, dolcezze, malinconie. Con senso dell’umorismo e modestia piemontesi sotto i baffoni da osteria. Volava basso, tranquillo, in un tempo di isterie magniloquenti, nella ridda degli ego.

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