Ho paura torero al Piccolo Teatro

26 Gennaio 2024

La radio. Un po’ Radio Alice, un po’ consolazione di solitudini sentimentali con motivi struggenti; un po’ agitazione politica, un po’ malinconia e sentimento. La radio, questo vecchio mezzo di comunicazione ancora attuale, che ha acceso e nutrito passioni, che ha fornito informazioni dietro le cortine di ferro della propaganda del potere; che certe volte, ben prima di Twitter, ha guidato le rivolte. La radio è una delle protagoniste di Ho paura torero

Per la sua prima regia al Piccolo Teatro di Milano, Claudio Longhi, quasi allo scadere del suo mandato di direttore, sceglie un testo “PopCamp”, insieme “commovente e divertente”, come notava Marco Belpoliti nella prefazione al romanzo di Pedro Lemebel del 2001, pubblicato in Italia da Marcos y Marcos nel 2011 con la traduzione di M. L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi. Un testo anche politico, perché quello di cui si parla, sempre con un’ironia sopra e sotto le righe, teatrale (o cinematografica) eccessiva, pop e camp appunto, è il Cile fragile del 1986, esasperato da più di un decennio di dittatura di Pinochet.

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Nel 1986 il Paese freme. Non dimentica l’assassinio di Allende, la morte di Neruda, la repressione di ogni opposizione, i desaparecidos, la continua crisi economica, l’isolamento internazionale. Ma a Santiago vive anche la “Fata dell’angolo” (nell’originale la loca, la matta, la checca: una fata ignorante, direbbe Özpetek). È un omosessuale eccessivo, arrivato ormai a un’età più che matura, che ha abbandonato il battuage e si è dedicato al ricamo per sopravvivere. Uno ormai con pochi peli in testa e quasi nessuna speranza di trovare un amore, che non abbandona però la necessità di proiettarsi continuamente in mille specchi. Uno un po’ derelitto, come il Cile, ma con una grande immaginazione e un sentimento enorme. 

Alla Fata capita di incontrare un bel giovanotto, che gli si presenta come Carlos e gli accende l’intorpidita passione, tanto da fargli accettare di usare la sua casa come deposito per “casse di libri”, che la nostra Fata sa bene contenere altro, forse qualcosa di pericoloso. E accoglie anche un misterioso tubo, decorando il tutto con gli stracci e le tovagliette che ricama con motivi e colori delicati, trasformando parallelepipedi di cartone in tavoli e poltrone, simulando con quelle decorazioni un casalingo paradiso nello squallore di un appartamento povero, in un quartiere abbandonato.

La Fata canta, accenna o intona vecchi motivi appresi alla radio, di Lola Flores, di Sara Montiel, di Chavela Vargas, rumbe, tanghi, canzoni flamenche, mentre la rivolta serpeggia per le strade di Santiago e si sente che si prepara qualcosa contro il dittatore. 

Il sipario del teatro Paolo Grassi di via Rovello, la storica sede del Piccolo aperta da Paolo Grassi e Giorgio Strehler nel 1947, si apre su una scenografia fatta di lamiere, con manifesti, slogan, striscioni. Viene proiettato l’assalto fascista al palazzo presidenziale della Moneda in quel tragico settembre del 1973 che interruppe definitivamente, dopo la bomba di piazza Fontana, le speranze in un radicale cambiamento politico. Ascoltiamo le ultime parole di Allende. Poi appare lui/lei, la Fata, l’opposizione fatta semplicemente con una diversità non politica, esistenziale, che non accetta regole e, in mondo militarizzato, elegge la fluidità a modo d’essere. È Lino Guanciale, bravo attore di teatro e divo televisivo, che mette in gioco la sua popolarità e il suo carisma in un personaggio marginale, interpretato con finezza capace di andare sopra le righe con semplici accenni, senza mai renderlo grottesco, caratterizzandolo con qualche tono troppo acuto, qualche movenza che fa emergere la parte femminile, senza “checcheggiare”. Sempre commovente e arguto, finto tonto delicato che cerca di capire e che soprattutto ama, vuole amare e essere amato.

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Intanto la radio incalza la cronaca: “Un anno marchiato a fuoco dai copertoni fumanti per le strade di Santiago”… “Quelle notti funeree, trafitte dall’incessante ‘Cadrà?’, e da tanti, tanti comunicati dell’ultimo minuto, sussurrati dall’onda sonora del ‘Diario de Cooperativa’”. E c’è il coro dei vicini, dei passanti e arriva la voce sua, di lei, della (del) protagonista, che ci rivela la cifra di questo spettacolo: “Poi c’era la casetta macilenta, un angolo di tre piani con una scala vertebrale che portava in soffitta. Una ringhiera per stendere le lenzuola, le tovaglie e le mutande. Da lì si poteva vedere la città. Nelle sue mattine di finestre spalancate, la fata cantava ‘Ho paura torero, ho paura che stasera il tuo sorriso svanisca’”.

Il romanzo non è tradotto in dialoghi teatrali: lo spettacolo ne conserva la forma narrativa, affidando agli attori il compito di entrare nei personaggi e insieme di raccontarli, di portarci attraverso la narrazione negli snodi della storia. Longhi fa suo il metodo sperimentato dal suo maestro Luca Ronconi in vari spettacoli, soprattutto in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana e in Fratelli Karamazov, lavori in cui Longhi aveva fatto da assistente.

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I piani, come sempre negli spettacoli di Longhi e come nel romanzo di Lemebel, intellettuale provocatorio, amatissimo in Sud America, si intrecciano. Allo sguardo lontano dalla città della casa della Fata, dove la politica entra surrettiziamente attraverso il fascino di Carlos e quelle casse, si contrappongono le voci di rivolta nelle strade e un piano “olimpico”, rappresentato dal dittatore e da sua moglie, Doña Lucía, grottesche figure. Lui è in preda a sogni dal colore di incubi, lei alla smania di normalità, in un cicaleccio continuo dal quale Augusto (Pinochet) prova a sfuggire deliziandosi con marce militari. Mario Pirrello e Arianna Scommegna rendono le due figure particolarmente incisive, in certi momenti deliberatamente o involontariamente sinistre, in altri decisamente caricaturali, come due annoiati impiegati di una normalità che trasuda repressione, disprezzo per la povera gente, sangue.

La Fata accetta di accompagnare Carlos in una gita in un luogo verso il mare da cui passeranno i due potenti: e se Augusto all’inizio si compiace di vedere due giovani che si baciano e lei ammira il bel cappello giallo alla moda di lei, che il marito non le farebbe mai comprare, poi il dittatore intuisce che si tratta di due uomini e esprime tutto il proprio orrore omofobo.

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Ma il momento di svolta è quando la Fata abbandona la casa “vertebrale” dell’angolo, rifugio, luogo della lontananza dalla vita reale, anche dal tugurio dove vivono le sue compagne checche in un altro quartiere, nido dell’esclusione e dell’autoesclusione, del sentimento, della fantasia, e in autobus porta una meravigliosa tovaglia ricamata con fiori e uccellini, paradiso e primavera, alla moglie di un gerarca. Per strada vede la miseria, l’opposizione, la repressione violenta, i manganelli, le teste squassate, i fumi dei lacrimogeni. Arrivata dalla ‘colonnella’ viene fatta aspettare e, indignata, va via portando con sé il suo delicato ricamo. La poesia non è per quegli affamatori, per quegli assassini.

Il testo, adattato da Alejandro Tantanian, scrittore, attore e regista argentino, esperto poeta del tango e delle sue filosofie, procede fedele al romanzo, forse con qualche lungaggine di troppo che poteva essere risparmiata a una durata che supera le tre ore. Ma tutto scorre piacevole, con continui salti tra i piani, con filmati che sottolineano la teatralità della Fata che fa della recitazione (nel romanzo della citazione cinematografica) una ragione di esibizione sottile di verità attraverso la maschera della convenzione artistica, fuori dagli schemi rigidi, militareschi, di un Paese repressivo. La Fata è un respiro che vola di continuo, come un’ape, da un fiore all’altro, non disdegnando anche le corolle rinsecchite, Alice che fa il salto oltre lo specchio avida di esperienze, in cerca di un amore che rimarrà solo sognato, fortemente desiderato (come la libertà del Paese?). Anche se Carlos (il bravo Francesco Centorame) alla fine dimostrerà di subirne il fascino. Forse solo per umana comprensione, in una solidarietà di diseredati che l’oltracotanza dei potenti spinge oltre gli schemi. Lui, il militante, il macho, sarà costretto a rivelare il suo lato più tenero, più affettivo. 

Lo splendore immaginativo del cinema (un modello evidente del romanzo e del testo è Il bacio della donna ragno di Manuel Puig e il successivo film di Hector Babenco), l’ironia camp alla Copi, qui governata senza eccessi, il disinganno sentimentale e la presa di coscienza politica della Fata, il mutamento affettivo di Carlos, il lato fanciullesco del (della) protagonista, a confronto con Laura, guerrigliera che a un certo punto appare, sicura, adulta a contrasto, i controtempi vezzosi e le dichiarazioni politiche della radio, precipitano tutti nell’attentato a Pinochet messo in atto in quel 1986, nel luogo dove lui passava per andare nella residenza al mare. Attentato fallito, che determina la disgregazione del piccolo mondo che si era creato in casa della Fata, per evitare le conseguenze della repressione. L’addio, malinconico, a Carlos avviene su una spiaggia, con il sogno di partire insieme per Cuba, mentre lei dimentica, volutamente, la tovaglia di uccellini e fiori sul mare, a portare bellezza su quel sabbia bruttata poco più indietro dal nuovo Parlamento voluto da Pinochet. E nel taxi che li porta verso un domani oscuro lei sostituisce la radio, rubata qualche giorno prima, cantando: “Hanno i suoi disegni / piccole figure / uccelline pazze / che vogliono volare”. 

È un incontro umano questo spettacolo, “commovente e divertente” come scriveva Belpoliti del romanzo; ed è un atto politico, più politico ancora del testo, come sottolinea con la sua regia, fatta di frammenti, accensioni, documenti, sogni, Longhi, un modo per ricordare una tragedia che segnò le speranze della sinistra agli inizi degli anni 70. Con un coro formato da Daniele Cavone Felicioni, Michele Dell’Utri, Diana Manea, Giulia Trivero, impegnati ognuno in più parti, con le scene di Guia Buzzi, i costumi di Gianluca Sbicca, le luci (e le ombre interiori) di Max Mugnai, gli interventi video di Riccardo Frati. La locandina indica anche Davide Fasulo come autore dei “travestimenti musicali”, cioè del suono e della rivisitazione di motivi d’epoca, tutti da sentire (ascolta qui). Lino Guanciale è il dramaturg: innamoratosi anni fa del romanzo, lo ha fatto conoscere a Longhi e ha voluto fortemente lo spettacolo. 

Dal sito del Piccolo Teatro si può scaricare il programma di sala, ricco di materiali.

In scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano fino all’11 febbraio (molte recite sono già esaurite).

Le fotografie sono di Masiar Pasquali.

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