Il 7 ottobre e l’11 settembre. 1
È vero che il 7 ottobre è il nuovo 11 settembre? L’ha detto Benjamin Netanyahu, uno degli uomini più screditati del pianeta, ma questo non significa che sia falso. Al contrario della guerra in Ucraina, che è brutale ma tradizionale, con molte vittime civili ma con due eserciti che si contrappongono come da manuale di storia, l’11 settembre e il 7 ottobre sono eventi asimmetrici, che iniziano con un attacco di civili contro civili e sfociano in uno sviluppo militare tanto sproporzionato quanto, in conclusione, inutile. Nella situazione che contrappone Israele e Gaza nessun esercito regolare può sperare di ottenere una vittoria risolutiva. Se il dopo-11 settembre può servire da esempio, si pensi agli illusori risultati militari ottenuti con l’occupazione dell’Afganistan e con la seconda guerra in Iraq, mai tramutati in un successo politico e che anzi, col tempo, si sono rivelati una sconfitta. Non si sa ancora quale sarà l’effetto della rivalsa di Israele contro Gaza, oltre ai morti e alla devastazione che ne sono seguiti, ma l’esercito israeliano non potrà semplicemente dichiarare vittoria e tornare a casa, perché la fine non sarà questa.
Il 7 ottobre 2023 è il nuovo 11 settembre anche per un altro motivo. La solidarietà che il mondo aveva dimostrato nei confronti degli Stati Uniti dopo l’attentato alle Torri Gemelle (che era reale e che poi gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per sperperare) non è stata estesa a Israele nemmeno nelle prime ore successive all’attacco di Hamas, quando l’esercito israeliano stava ancora contando i morti e nessun carro armato era ancora entrato a Gaza. Per meglio dire, c’è stata una spaccatura in buona parte dell’Occidente tra il palazzo e la piazza. I governi, l’apparato, il potere, il sistema dell’Occidente, si sono dichiarati pro-Israele. La piazza, che non significa la maggioranza della popolazione bensì quella che fa notizia, social media inclusi, ha subito mostrato una forte simpatia per Hamas. Dopo l’11 settembre non erano stati in pochi ad affermare che gli Stati Uniti “se l’erano voluta”. Ma, nonostante la lunga storia dell’antiamericanismo europeo e di altre parti del mondo, non si può dire che l’evento avesse generato un sentimento di soddisfazione generale. Dire che gli americani avevano avuto “quello che si meritavano” era una conclusione che non portava molta gioia nemmeno a chi la formulava. Il 7 ottobre, invece, la gioia di parecchi sostenitori della causa palestinese è stata palpabile, se non sfrenata.
Perché è accaduto? E qual è il significato? Questo è il primo di una serie di articoli che cercano di scandagliare la questione e le sue ramificazioni. Per essere chiari, dovrò dire che le rovine di Gaza mi suscitano tanto orrore quanto il massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023, ma per poter tentare un’analisi, anche minima, devo mettere l’orrore da parte e non trincerarmi dietro false genericità come “sono contro tutte le violenze” o “sono dalla parte di tutte le vittime”. Tali affermazioni possono far sentire molto nobili e innocenti, ma di fatto sono ipocrite, come quella di chi grida “pace” solo perché vuole essere lasciato in pace. Se quello che dirò sarà criticabile, ebbene, che lo sia. Forse dalle critiche imparerò qualcosa che ancora non so.
Non stupisce che in Italia e in altri paesi europei le manifestazioni dopo il 7 ottobre siano state in larga parte a favore dei palestinesi. In Italia, in particolare, la simpatia per la causa palestinese ha una lunga storia, che non comincia nemmeno nelle piazze ma nel succedersi di governi di varie tendenze che hanno fatto della pace col mondo arabo (una pace comprata, non facciamoci illusioni) una priorità. La questione palestinese è poi intrecciata con l’infinita vicenda del sostegno della sinistra verso Israele, dapprima garantito dai vertici dell’Unione Sovietica, poi ritratto e passato al mondo arabo, poi riaffermato per essere smentito di nuovo, in una successione di svolte geopolitiche che sono passate per umanitarie e di simpatie umanitarie che non hanno mai saputo di essere geopolitiche. Ben pochi possono padroneggiare una storia che fa disperare chiunque voglia mettersi dalla parte di una “ragione” che non sembra stare in nessun luogo. Che cosa dovrebbe fare un giovane israeliano di vent’anni, se non difendere l’unico Israele che ha conosciuto? E che cosa dovrebbe fare un giovane palestinese della stessa età, se non sostenere l’unica Palestina nella quale è vissuto? Right or wrong, my country, come disse l’ammiraglio Stephen Decatur nel 1816, dopo aver combattuto nel Mediterraneo, senza andare per il sottile, i pirati algerini che assaltavano le navi americane e riducevano i marinai in schiavitù (sì, è successo anche questo; gli Houthi dello Yemen non hanno inventato nulla).
Ma che le manifestazioni a sostegno della Palestina, e di Hamas stessa, dominassero i campus delle università americane più elitarie, sconfinando in episodi di aperto antisemitismo, ecco, questo ha colto di sorpresa l’America dei media, dell’opinione pubblica e della politica. Non chi seguiva la tendenza da tempo, però. Secondo statistiche dell’FBI, confermate dalla Casa Bianca, tra il 2021 e il 2022 i “crimini d’odio” legati all’antisemitismo sono cresciuti del 25% [Statement from President Joe Biden on Hate Crime Statistics | The White House]. Regolarmente, più di metà di tutti i delitti su basi religiose sono diretti contro gli ebrei (il 2,4% della popolazione americana). Minacce antisemite si sono avute anche nelle scuole superiori, tanto da spingere il Dipartimento dell’Istruzione a intervenire con direttive più precise di quelle esistenti. La Anti-Defamation League, un’agenzia di monitoraggio in difesa degli ebrei, ha registrato 832 episodi di antisemitismo accaduti tra il 7 ottobre e il 20 novembre 2023. In varie università, attivisti hanno strappato manifesti raffiguranti donne e bambini israeliani presi in ostaggio da Hamas; alla Cooper Union di New York un gruppo di studenti ebrei si è dovuto rifugiare all’interno della biblioteca mentre i manifestanti filopalestinesi cercavano di sfondare le porte. A Ithaca, nello stato di New York, uno studente della Cornell University è stato arrestato dopo aver postato gravi minacce contro gli studenti ebrei. All’M.I.T. gli studenti ebrei sono stati consigliati di non accedere all’atrio principale dell’università perché troppo pericoloso per loro. Alla Columbia University, uno studente ebreo è stato assalito fisicamente. Nei pressi della Tulane University uno studente ebreo è stato ferito alla testa dal bastone di una bandiera palestinese La New York University e altre università hanno creato una task force speciale per monitorare e combattere gli episodi di antisemitismo. È solo la punta dell’iceberg. Complessivamente, tra il 7 ottobre e il 7 dicembre 2023 si sono avute manifestazioni di odio antisemita in numero cinque volte maggiore rispetto a quelle registrate nell’anno precedente.
Ci sono stati anche tremendi episodi di antiarabismo (preferisco non usare il termine “islamofobia”, visto che implica una paura dell’Islam di fatto inesistente). L’antisemitismo finora ha seminato preoccupazione e paura; l’antiarabismo ha ucciso. Il 14 ottobre un bambino palestinese americano di sei anni è stato assassinato con 26 pugnalate dal suo padrone di casa a Plainfield Township, nell’Illinois. La madre non ha potuto partecipare al funerale del figlio perché ha ricevuto anche lei dodici pugnalate. Il 25 novembre tre studenti ventenni di origine palestinese sono stati feriti a Burlington, nel Vermont, da un uomo di 48 anni che li ha incontrati per strada, ha visto le loro kefiah, ha estratto la pistola e ha aperto il fuoco. Ma di queste violenze si è parlato ben poco; gli autori non erano studenti universitari; non erano ragazzi “bene” che potrebbero portare le loro posizioni politiche nelle ditte dove lavoreranno. (È stato questo “pericolo” ad aver scatenato la reazione degli imprenditori – ebrei e non – che donano milioni alle università e non vogliono trovarsi tra i piedi una generazione di manager filoarabi.)
Ma resta la domanda: che cosa ha spinto migliaia di giovani, per lo più iscritti ad atenei costosissimi e avviati a carriere lucrative nel capitalismo occidentale, a scendere nei meravigliosi spazi aperti dei loro campus a gridare “Intifada” o “Palestine will be free from the river to the sea” (“La Palestina sarà libera dal fiume al mare”) magari senza nemmeno sapere bene di quale fiume e di quale mare si trattasse (il sistema educativo americano non è particolarmente forte in geografia), ritenendo i loro compagni di corso ebrei corresponsabili delle scelte compiute da uno stato con il quale hanno poco o nulla a che fare? Tutta l’attenzione mediatica e politica è stata riservata a questi giovani incomprensibili. Certamente, si è detto, indottrinati dai loro professori “marxisti” a sostenere qualunque causa antiamericana possano trovare quando si svegliano la mattina.
Le giovani generazioni americane sono in molti casi educate – ma fin dalle scuole medie, senza bisogno di arrivare all’università – a considerare l’Occidente come il responsabile primo e unico di tutto ciò che si oppone all’eguaglianza politica, sociale ed economica dell’umanità. Nulla di tutto questo, è bene ribadirlo, ha a che fare con il “marxismo” e spesso nemmeno con la “sinistra”, nonostante il clamore mediatico che si leva intorno a questi termini. Innanzitutto, che le scuole americane siano rette da marxisti e producano marxisti a tutto spiano è una pura allucinazione. Tutti i politici di destra con una laurea in mano vengono dalle università cosiddette marxiste. La maggior parte degli studenti di Harvard e Yale si laureano in economia e commercio e non stanno certo pianificando il rovesciamento del capitalismo. Il 50% degli studenti della University of Pennsylvania trova lavoro nel ramo consulenza finanziaria [What Conservatives Misunderstand About Radicalism at Universities - The Atlantic | Everand]. Il che non vuol dire che non ci sia una componente radicale nella classe insegnante, nutrita da una maniacale politica identitaria trasmessa puntualmente agli studenti. Ma, appunto, è radicale, non è marxista. È il sogno di una giustizia sociale tanto assoluta quanto disgiunta dalle basi economiche della società, estrema quanto si vuole ma inefficace al di fuori della realtà virtuale del campus. Peraltro, studenti e insegnanti radicali ci sono sempre stati. La differenza è che oggi le università americane sono dotate di un imponente apparato burocratico, eretto a difesa della giustizia identitaria e concentrato negli uffici “Diversità, equità, inclusione”, che si guadagnano lo stipendio istituzionalizzando il radicalismo. Le università più prestigiose e funzionali al capitalismo sono dunque invischiate in questo gioco di ruolo in cui devono prendere posizione sui fatti del mondo e magari apparire più a sinistra dei loro stessi studenti. Quello che Stanley Fish, professore di lettere e diritto, osservava nel 2009 (all’incirca: “Può essere vero che ciò che insegniamo è uno strumento di potere teso alla conservazione dello status quo, ma questo è un motivo in più per insegnarlo a studenti che devono essere preparati a entrare nel mondo com’è ora”, What Should Colleges Teach? Part 3 - The New York Times (nytimes.com)), va contro all’utopia di chi non vuole insegnare il mondo, vuole salvarlo.
Ma la convinzione, da parte di molti studenti americani, di vivere nella società più razzista e ingiusta del mondo, non è puro frutto di indottrinamento. Si tratta piuttosto di una comoda – anche quando è sincera – procedura di autoflagellazione. Dopotutto, è meglio se me lo dico da solo che sono razzista, sessista, omofobo, colonialista e imperialista, piuttosto che me lo dicano quelli che ne avrebbero qualche ragione. Di fatto, è una tacita riaffermazione di superiorità. Se davvero, in quanto americano, sono responsabile di tutti i mali che affliggono il mondo, ciò non può che ribadire una mia supremazia, anche se in negativo. Meglio essere il re dei bastardi che un bastardo qualunque. O, detto altrimenti, gridare il proprio sostegno ad Hamas può essere tanto radical chic quanto in Italia alla fine degli anni Settanta discutere di autonomia operaia mentre si era in lista d’attesa per un posto di executive a Canale 5.
Non è sempre così. Se, da un sondaggio di YouGov poll, i giovani americani tra i 18 e i 29 anni hanno più simpatie per la Palestina che per Israele, è perché non sono cresciuti con l’immagine di Israele come di uno stato relativamente povero e ultimo rifugio della diaspora ebraica. Hanno visto la Cisgiordania gradualmente occupata dai coloni e le immagini di soldati israeliani a presidio di quartieri che non possono non ricordare, e in peggio, i neighborhood afroamericani più poveri. Questo però non basterebbe a scatenare nei campus la caccia all’ebreo. Il vero dogma di questa “via stretta” alla comprensione del mondo è che la vittima ha sempre ragione. “You can’t blame the victim”, si dice unanimemente, e nella stragrande maggioranza dei casi è vero, ma nella storia si danno eventualità in cui la vittima è anche aggressore pur non cessando di essere vittima; si danno altri casi in cui la vittima è corresponsabile del male che riceve pur senza essere imputabile. Ne fanno testimonianza gli attacchi che ricevette Hannah Arendt dopo la pubblicazione della Banalità del male (1963) per aver sottolineato la complicità di alcuni Consigli Ebraici con la Shoah. Cosa ben nota agli storici, prima e dopo di lei, e perfettamente spiegabile con i ricatti e il terrore che i Consigli Ebraici subivano nelle città sotto il controllo nazista (nessuno che non si sia trovato in quelle situazioni può ergersi a giudice morale), ma impossibile da accettare per chi viveva, o vive, secondo una visione angelico/demoniaca della storia.
È questa situazione di stallo mentale, generata dalla presunzione di colpevolezza assoluta da parte dell’Occidente e di innocenza assoluta da parte di chi Occidente non è, ad aver reso impossibile, da parte dei virtuosi studenti di cui sopra (ma anche di numerosi media e esponenti politici di area progressista), una risposta semplicemente solidale, se non proprio con tutte le vittime del 7 ottobre, almeno con le donne soggette allo stupro di massa perpetrato da Hamas, di cui forse non sapremo mai né l’intera storia né il numero preciso.
La questione riguarda anche l’Italia, lo so. Il 5 gennaio 2024 Andrée Ruth Shammah, Silvia Grilli, Alessandra Kustermann e Anita Friedman hanno lanciato un appello perché la strage del 7 ottobre venga dichiarata un femminicidio di massa (L’appello per dichiarare “femminicidio di massa” la strage del 7 ottobre - la Repubblica). È vero che l’appello ha raggiunto le 4000 firme in poche ore, ma basta leggere i commenti che la notizia ha generato sulla versione online di “Repubblica” per constatare l’incredulità, il negazionismo e la derisione di chi cerca in ogni modo di sminuire l’accaduto. E se non c’è negazionismo c’è falsa universalità. Perché mettere l’accento sulle donne quando sono stati uccisi anche uomini, vecchi e bambini? Perché privilegiare le donne vittime di Hamas quando quei morti sono già irrilevanti rispetto alla distruzione di Gaza? Ma che una vittima venga violentata e torturata prima di essere uccisa non è irrilevante. Implica una strategia, da parte dell’aggressore, che esula dagli atti di guerra e va giudicata a parte, così come i campi di sterminio nazisti non erano atti di guerra e per poterli giudicare è stata elaborata la nozione di crimine contro l’umanità.
Ma voglio parlare degli Stati Uniti, perché sono ciò che conosco. Nel prossimo articolo dovrò quindi affrontare per prima cosa la questione non molto nota dell’antisemitismo americano, e per seconda cosa la distinzione – che viene fatta passare come antropologica, dunque non storica e non dialettica – tra i popoli che non possono non essere aggressori e le razze che non possono che essere oppresse. Partirò da una mail che ho ricevuto il 17 novembre scorso, in cui un ebreo mi scrive del suo timore di essere diventato il nuovo nazista.
(Continua)