Un classico di Antonio Prete / Il pensiero poetante di Leopardi

23 Agosto 2021

Presentandosi al pubblico all’inizio dell’Enrico IV (Parte seconda, scena 2) Falstaff dice di essere il più arguto di tutti perché non è soltanto arguto in se stesso, ma provoca arguzia negli altri.

Rispondere e riprendere Leopardi è partecipare alle sue idee che, come quelle dell’eroe shakespeariano, si articolano attraverso quello che siamo noi. Il libro di Antonio Prete sul pensiero poetante, parte da qui, dal modo in cui le sue idee continuano a moltiplicarsi in noi. Antonio Prete è poeta, scrittore, ma soprattutto accoglie la compagnia di Falstaff, è un buon amico di Leopardi. La grande qualità di Il pensiero poetante (riedito da Mimesis, consolidando un suo luogo nel discorso leopardiano che è iniziato per questo libro nel 1979) è di tenere presente quanto sia facile sconfinare, soprattutto con Leopardi ma in realtà con tutto quel che viene scritto, in una posizione non originale, che riverbera invece di dire, che sostituisce al reale svolgersi del pensiero un’idea astratta e oggettiva della storia, mentre quello che accade attraversa gli umani in modo molto più complicato, non solo per le strutturazioni consce e inconsce della psicologia, ma perché ci sono i miti, le religioni, le ideologie, e l’idea di poter ripulire un poeta o uno scrittore da quello che in lui può apparire con il senno di poi sbagliato, dà spesso alla critica letteraria quel tono un po’ saccente di chi prova a giustificare le posizioni di un autore di fronte al risorgimento, il fascismo o il comunismo, alle questioni religiose, agli ambienti familiari.

 

Prete riesce a evitare questa trappola grazie a una lucidità che sta, di fronte a Leopardi, tra filosofia e sentimento. Molto più spazio hanno qui dunque Operette morali e Zibaldone che non i Canti. Siamo nella bottega delle idee.

Importante è, per restare vicino a come Leopardi scrive, o meglio a quello che cerca di scrivere perché soprattutto in Zibaldone siamo sempre in uno stato germinale, come diceva Solmi, in compagnia di un uomo che pensa, apre, piuttosto che di uno che chiude, e quindi la scrittura non è mai da intendersi in lui come atto conclusivo, che consegna ai posteri, ma al contrario come strumento, quasi un bricoleur delle idee possibili, come dicevano Deleuze e Guattari. Un uomo che vorrebbe vivere, per cui i sentimenti sono più profondi e importanti dei pensieri. L’uso che Leopardi fa del termine sentimentale è assolutamente positivo, è un punto solido, fermo. Mentre al contrario per noi ha finito con il connotare un eccesso zuccheroso e decadente. Eccesso che in certe poesie di Leopardi, decisamente brutte, come Il Risorgimento, c’è. E forse proprio per questa ragione, proprio perché sa bene, da artigiano, il tipo di errore letterario e umano a cui il sentimentalismo può condurre, Leopardi riesce a riferirsi ai sentimenti con tanta efficacia e ad usare l’aggettivo sentimentale senza indulgenza, anzi, con una certa spietatezza. A fianco a Silvia e Nerina c’è Aspasia, di fronte all’idillio contemplativo dell’infinito, ai paesaggi lunari dal balcone di casa c’è il monte sterminatore, il Vesuvio.

 

Anche in Prete troviamo la stessa qualità, la capacità di mirare dritto al nodo in cui il sentimento è la base su cui posa qualunque pensiero, o più precisamente un sentimento è un pensiero avvertito profondamente, ed è questa qualità la più originale e convincente della prosa critica di Il pensiero poetante. Prete sa, detto altrimenti, quanto facilmente si potrebbe perdere la compagnia amica di Leopardi, di questo meraviglioso Falstaff della filosofia e della letteratura o semplicemente della sua buona compagnia, se ci si immettesse in sentieri eruditi, o puramente filosofici, o storici, o stilistici e via dicendo. Bisogna al contrario tenere ben salda l’unità tra sentimenti e idee, tra il sentire la vita e il pensarla. Ma di quali idee stiamo trattando? Cominciamo con ordine, come fa Prete, e partiamo dall’idea di piacere, o dalla teoria del piacere, come viene presentata spesso nei programmi universitari e scolastici. L’idea è a prima vista semplice: siccome il desiderio di piacere è infinito mentre la gratificazione di qualunque desiderio è finita, l’aporia porta inevitabilmente alla frustrazione. 

Nel leggere queste pagine molto famose, soprattutto nello Zibaldone ma riprese anche altrove, Prete ci mette prima in guardia da un eccessivo freudismo.

 

 

È inevitabile per noi oggi, nel leggere cosa sia il piacere, ascoltare il riverbero del novecento da cui veniamo, con tutti i limiti di uno sguardo psicologicamente strutturato dalla psicanalisi che rischia di rovolgersi a Leopardi suggerendo una diagnosi o addirittura una cura, cioè come liquidare il suo dolore, o per dirla in modo più letterario e meccanico l’eredità romantica dell’aporia su cui Leopardi fissa lor sguardo, che Freud la legge soprattutto attraverso Schopenhauer. L’io freudiano è un’appendice psicologica della fisiologia, vengono ignorati gli orizzonti filosofici, storici, letterari su cui Leopardi si affaccia che vanno molto oltre l’individuo.

 

In Leopardi l’opposizione è più marcata e italiana: da una parte c’è il pericolo della spiritualizzazione, e cioè una tendenza a far sparire la speculazione metafisica in ambito religioso. Dall’altra un dibattito ancorato nella letteratura illuminista, soprattutto francese, che tenta di enumerare elementi, rendere concreto e materiale attraverso la tassonomia quello che avviene nel desiderio e nella frustrazione. Questa parte è esplorata con grande puntualità da Prete nella prima parte del libro. Detto altrimenti, dando un elenco di argomentazioni, diagnosi, interpretazioni e via dicendo, si tende a suggerire che lì, dove si indica con la parola il piacere, esista davvero qualcosa. L’argomentazione di Prete, soprattutto grazie al fatto che rinuncia subito a Freud, ci costringe al contrario ad ascoltare Leopardi in modo più diretto, forte e convincente. Nei primi anni ’20 (e cioè quando Leopardi è ancora a Recanati e vive in famiglia) Leopardi si sforza di costruire uno scudo anche teorico contro la religiosità della famiglia. Resistere ai riti, ai luoghi comuni, all’oppressione esercitata su lui e i fratelli più giovani da un cattolicesimo impugnato da entrambe i genitori come anti-vita. Anzi, e questo emerge un po’ ovunque nella corrispondenza e si affaccia anche nel Canto notturno, dalla noia terribile che viene dal pregare, dalle messe, dalla liturgia tutta, che doveva essere pervasiva in casa Leopardi. Una sorta di pratica della sottomissione che viene evocata anche nella Ginestra, e quindi resta con lui tutta la vita, quando parla di capo chinato di fronte al futuro oppressore, e cioè la morte.

 

L’illuminismo, in questo momento, gli serve a contrastare l’oppressione della noia religiosa. Troviamo tracce di questo scontro in alcuni puerilia. Fin qui nulla di straordinario, in fondo sono tante le persone intelligenti che si devono scrollare di dosso quel tipo di religiosità che sconfina nella superstizione e nella scaramanzia, e che comunque è usata con scopi intensamente repressivi, soprattutto di fronte alla vita sessuale. Leopardi si appoggia agli illuministi come si potrebbe oggi usare Freud, appunto: un antidoto.

Tuttavia il riverbero è più intenso e longevo, e Prete lo approfondisce quando inizia a esaminare il modo in cui viene letto Epicuro, e qui, sia nel libro di Prete che in Leopardi, c’è davvero un’altra aria. Ad aprire un ulteriore possibile sviluppo è lo slancio dell’immaginazione. Questo non è un fatto meccanico e neppure religioso, è l’inizio di un pensiero poetante.

 

Prete ha qui molta consapevolezza e non viene solo dalle lettere. La sua interlocuzione non solo con i pensieri di Leopardi, ma con lo stesso scrivere di Antonio Prete, sono la parte più profonda del libro. Sono anche il cuore di una riflessione che continua a lungo nel lavoro intellettuale di Leopardi e immagino di Prete, e che scompare quando questo lavoro se lo scrolla di dosso. Per tutta una parte importante della propria vita, dall’infanzia e fino al soggiorno romano, Leopardi si è convinto che la qualità della propria vita dipenda e dipenderà da quanto bene e a fondo studia e capisce. In questo periodo il grande duello è tra ragione e natura, o piuttosto ragione e mito, che ricorrono nelle sue notazioni e nel suo orientarsi negli studi. Già dalle note alle canzoni del '24, quando chiede al proprio lettore di lasciargli fare un duello con gli eruditi, questa opposizione è insufficiente. L’erudizione è fredda, non è vita. Non coglie e non coglierà mai non solo cosa siano l’appetito, la gioia o al contrario la frustrazione di un bacio, una carezza concessa o rifiutata, ma neppure cosa sia la poesia, che nasce più profondamente sia della ragione che della natura. Per questo il sentire così importante per Leopardi e per Prete è il vero polo nord della navigazione. Radicarsi nel proprio sentire, capire come si è da come ci si sente, respingere l’astrazione religiosa che postula il bene e il male come un a priori che ci punisce eternamente per esser ruzzolati fuori dal paradiso, saperci essere. 

 

Insomma grazie Antonio Prete, qui si potrebbe andare avanti davvero a lungo a dialogare di questi eventi che nella poesia e nelle altre pagine di Leopardi hanno dato tanto a tanti di noi. Proprio perché come Sir John Falstaff, viene detta una cosa che apre a mille altre, se ne ride, si beve, si corrono grandi rischi, sia personali che politici, ma quanto è migliore questa compagnia di quella di chi vorrebbe già prender le misure delle nostre bare!

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