A Kiev, a Mosca, a casa
Lo sguardo dello spettatore, in alcuni istanti di questo bellissimo Non Tre sorelle, è invitato a soffermarsi su alcuni dettagli, quasi ad allontanarsi dal fuoco dell’accadimento scenico per concentrarsi invece sulle inconsapevoli posture, le gestualità ignare che le cinque attrici assumono per brevi momenti. Ecco un gruppo di giovani donne, in abiti bianchi primo Novecento: sorridono tra loro, si sfiorano le spalle, si danno un muto cenno d’assenso all’inizio dello spettacolo. Ecco Alice Conti, china su una sedia posta al margine destro della scena, ascoltare da Anfisa Lazebna il racconto delle ultime ore trascorse al Left Bank Theater di Kiev: la sua schiena si inarca, mentre tira una boccata di fumo dalla sigaretta accesa per l’amica, e la testa crolla verso il petto, sopraffatta da quella rievocazione di un drammatico addio alle scene. Eccola ancora, un’ultima volta: in piedi vicina a noi spettatori, con le braccia conserte e il volto rigato di lacrime, osserva Anfisa stretta in un abbraccio insieme a Yuliia e Nataliia Mykhalchuk.
Anche di questi tenui movimenti, di questa impalpabile spola degli affetti mossa tra i membri di una compagnia teatrale atipica, unica per sviluppo e formazione, si nutre infatti la creazione di Enrico Baraldi, presentata in prima assoluta al Teatro Fabbrichino dopo l’anteprima estiva a Kilowatt, e già insignita del premio come miglior spettacolo dell’anno dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro. Una complicità adamantina, una sorellanza, dilaga dal palco della piccola sala pratese, un tangibile sentimento di comunanza tra donne più o meno coetanee, e tra donne che hanno affidato al teatro desideri, sogni, paure. E noi, uomini più o meno giovani, spiamo quasi in imbarazzo quella tessitura di sentimenti, finalmente lontani dalla scena, fin troppo presenti nella Storia.
Forse è a partire da questo esilio maschile che si potrà raccontare uno spettacolo “liberamente non ispirato a un’opera di Anton Čechov”, come recita il sottotitolo, e dal quale qualsiasi reminiscenza di Andrej Prozorov e di Fedor Kulygin, di quei professori e dei tanti soldati che affollano le pagine di Tre sorelle, è stata epurata, cancellata, allontanata. Almeno qui, noi uomini non decidiamo i destini di nessuno: e Baraldi – con la complicità di Francesco Alberici nella scrittura drammaturgica, e di Ermelinda Nasuto nel ruolo di dramaturg – sembra essersi avvicinato a queste donne, e alle loro biografie, con raro pudore, con un’umiltà personale prima ancora che autoriale.
A costituire l’origine del lavoro, d’altra parte, è una vicenda di appuntamenti mancati, di ritardi e rifiuti: una catena di negazioni e obliterazioni, che coinvolge la possibilità stessa di fare teatro. Nel 2020 il progetto di una messa in scena del capolavoro cechoviano, firmato da Enrico Baraldi, vince il bando Davanti al pubblico promosso dal Teatro Metastasio, ma la pandemia ne blocca la realizzazione. Soltanto due anni più tardi, ormai rimossa la paura collettiva del contagio, Baraldi torna a lavorare intorno alle Tre sorelle, riuscendo però a coinvolgere solo due attrici del cast originale, Susanna Acchiardi e Alice Conti.
Qui la cronaca – fin troppo conosciuta, fin troppo denunciata – della lunga stagione dei teatri chiusi e della crisi del sistema dello spettacolo nazionale, si intreccia con altre vite e altre storie, lontanissime dal nostro immaginario e vicine, così vicine alle nostre città. Poche settimane dopo l’aggressione russa all’Ucraina, il progetto Stage4Ukraine creato dal regista Matteo Spiazzi – volto a offrire ospitalità e occasioni di studio e lavoro in Italia ad artiste e artisti ucraini – fa incontrare Baraldi e le due interpreti con un gruppo di attrici rifugiatesi dal paese in guerra. A deflagrare, questa volta, è il campo di tensione sorto intorno al testo e all’autore scelti: invisibile all’osservatore italiano, drammaticamente concreto per le attrici di Kiev.
È la stessa drammaturgia – in un affastellarsi di piani temporali, e in un sovrapporsi di lingue – a restituire il complesso processo di creazione di uno spettacolo che, di fatto, non andrà mai in scena: ora è Alice Conti, mai così brava, a descrivere la sensazione esperita durante quelle prove svolte all’aperto, nel maggio 2020, in un parco di cui ricorda la “luce attraverso le foglie”; ora Acchiardi tratteggia le lunghe giornate in casa, trascorse a studiare alla pianola; ora entrambe delineano quel senso di ineffabile dolore che le pervade durante le settimane di lavoro con le attrici ucraine, e lo stupore di fronte al loro gigantesco interrogativo, posto in un pomeriggio come tanti: “perché Čechov?”. Perché chiedere a un gruppo di rifugiate, di sopravvissute, di portare in scena un simbolo della cultura dell’oppressore, del nemico? Come poter imporre, a una qualsiasi di queste donne, di fare propri l’afflato di Irina, di Ol’ga, di Maša, come poter domandare loro di pronunciare con convinzione quell’unica battuta – “A Mosca! A Mosca! A Mosca!” – quando il luogo che vorrebbero rivedere è Kiev?
Quel pomeriggio, nel racconto scenico, appare come il punto di svolta che determina tanto il fallimento dell’originario progetto registico, quanto il nucleo germinativo di una scrittura ben più complessa e stratificata, in grado di accostarsi ad alcune delle principali, magmatiche questioni del nostro tempo inquieto – il rapporto tra rappresentazione e realtà, la cancel culture, il ruolo civile delle arti sceniche – senza offrire facili soluzioni ma piuttosto riverberando le contraddizioni, gli inciampi, il disagio che un artista, o uno spettatore, prova sempre più spesso a teatro. Non la guerra né la politica emergono dalla scrittura di Alberici e Baraldi, quanto piuttosto quell’intercapedine tra arte e vita, la faglia tra due ambiti del reale la cui frizione si rivela, di giorno in giorno, sempre più esplosiva. Che questa stessa intercapedine possa o debba abitarla il teatro, Non Tre sorelle lo suggerisce con una parsimonia di soluzioni pari alla loro commovente efficacia.
C’è soltanto un praticabile in scena, sul cui lato si trovano pile di piattini e tazze e teiere e zuccheriere, unico residuo di una possibile scenografia d’ambiente russo. In abiti d’epoca, il gruppo di attrici sistema la tavola nei primi momenti dello spettacolo, apparecchiandola per la colazione su cui si apre il dramma cechoviano: ma ben presto è la quotidianità delle interpreti a insinuarsi tra le ceramiche e le porcellane, a pretendere che la vita abbia una preminenza su qualsiasi sua possibile rappresentazione. Spogliatesi dei costumi in stile, le attrici narrano le storie diverse che le hanno condotte anni addietro in teatro, e oggi al Fabbrichino: vocazioni e fughe, recite scolastiche e viaggi attraverso l’Europa si susseguono nei racconti di Anfisa, Yuliia e Nataliia, mentre i loro piedi si fanno spazio tra le stoviglie, mentre le aste dei microfoni trovano posto accanto alle teiere. È l’adesso delle loro esistenze, l’adesso di una memoria ancora impregnata di cultura russa così come di quel 23 febbraio nel quale tutti i teatri ucraini sono stati chiusi per l’imminente conflitto, a esplodere dalle loro voci, ben al di sopra della scena che avrebbero dovuto abitare con le parole di Čechov, l’autore un tempo amato e oggi detestato.
E lo scrittore – nato a soli cinquantasei chilometri dal confine ucraino, ricorda Alice – diviene ben presto l’oggetto di indagine di un surreale elenco di pro e contro alla sua messinscena, stilato da ciascuna con motivazioni ovvie quanto strazianti: Čechov sì perché è il più grande autore russo, Čechov no perché è russo, Čechov sì perché è commovente, Čechov no perché metterlo in scena, per un’attrice ucraina, significherebbe non poter più rientrare a casa. Con asciutto rigore, Yuliia ricorda a tutti noi che “today you can not exactly do whatever you want, in the theater.
Theater can be dangerous sometimes. At least for us”. Suona come un doloroso risveglio da un sonno agitato, l'accorgerci che quello spazio protetto costruito in anni o millenni, quell’agorà nel quale affrontare ogni nostro incubo – l’incesto e il parricidio un tempo, la vita in tempo di guerra oggi – non è altrettanto sicuro per tante e tanti, e che i colti dibattiti che animiamo sui nostri giornali e sulle nostre riviste hanno un peso differente, e doloroso, quando i soggetti coinvolti non sono più intellettuali e artisti occidentali, teatri e attori europei, registi italiani. “This is it”, è così, e distruggere con una mazza da baseball quelle teiere, o triturare un copione in una distruggi documenti, può forse aiutare a sopportare l’amaro stato delle cose.
Con acume e rispetto, Baraldi lascia sedimentare nella mente degli ascoltatori le affermazioni di Anfisa, di Yuliia, di Nataliia, senza proporre panacee e rifuggendo da qualsiasi pedagogia spicciola, portando anzi a compimento un prezioso esercizio di complessità. Perché, come ripetutamente ricordano le attrici, il teatro è anche un lavoro: “it’s my job”, “this is my job”. E se da un lato nelle loro voci appare traslucida quella stessa dedizione che anima le sorelle cechoviane, quella stessa fiducia nella possibilità che il lavoro le emancipasse da un’esistenza grigia, dall’altro questa semplice affermazione fa esplodere, tanto in platea quanto sul palco, nuove questioni etiche, finanche deontologiche. E risuonare un’ultima, ben più dolorosa domanda: perché il teatro? Forse, sospira Alice, perché è l’unico luogo dove possiamo ancora contemplare la neve scendere lenta, mentre sogniamo di ritornare a Kiev, a Mosca, a casa.
Le fotografie sono di Luca Del Pia.