La mia patria è la lingua
L’espressione corrente in Italia per designare la propria origine, appartenenza, identità è “il mio paese”. Provate a ripeterla in uno qualunque dei dialetti italiani: ha sempre la stessa coloritura emotiva. Suona diretta, sincera, autentica: nulla di astratto, di costruito o convenzionale. Le si addicono le intonazioni affettuose, partecipi, ora sorridenti ora commosse, ma più spesso nel senso della rassegnazione o della nostalgia che non della fierezza o della determinazione. Lo stesso non avviene con l’espressione “la mia città”, dove una sfumatura di orgoglio è più frequente: serve all’amor proprio meglio che all’intenerimento. Sarà perché provenire da una città, storicamente, è cosa diversa che provenire dal contado? Perché chi è nato in un paese è più probabile che ne parli da emigrato, anche se solo a qualche decina o centinaio di chilometri di distanza? Certo, “la mia città” ha un’implicazione più esclusiva e (paradossalmente) più campanilistica: manca della felice ambiguità di “paese”, che può indicare sia una realtà locale sia l’intera nazione. E, detto per inciso, il sostantivo “nazione” si usa meno dell’aggettivo “nazionale”, che, sostantivato, ha a sua volta larghissimo smercio in campo sportivo (ma un tempo anche per le sigarette). Sinonimo meno aulico di “patria”, anche “nazione” accede a una circolazione più larga solo se preso di sbieco. La lingua è lo specchio delle coscienze. La nostra ritrosia a usare la parola “patria” deriva forse dalla difficoltà che si prova a nutrire l’orgoglio di essere italiani. Ma questo, forse, dovrebbe essere argomento di un’altra inchiesta. Andrà invece ribadito che l’ubriacatura patriottarda e nazionalistica del ventennio fascista non è stata un’aberrazione temporanea: la fortuna romantica e risorgimentale dell’ideale patriottico, nonostante il suo fondamento democratico, conteneva in germe quella torsione religiosa dell’idea di patria che è stata fonte di tante aberrazioni e mistificazioni (a cominciare dai massacri della Grande Guerra). Meglio, quindi, fare un uso moderato del vocabolo: prudente e, se è il caso, ironico: ma senza disdegno e senza irrisione. Se dal vocabolo passiamo al concetto, la prima cosa che mi viene in mente è la frase di Pessoa che abbiamo appreso grazie ad Antonio Tabucchi: “la mia patria è la lingua portoghese”. Questo mi pare il punto. Anche volgendolo in italiano funziona. La mia patria è la lingua italiana. Non perché mi occupi per lavoro di testi letterari, ma perché la lingua italiana nutre la massima parte della mia vita di relazione, a tutti i livelli. Detto altrimenti: l’identità è un fatto essenzialmente linguistico, e per questo è bene che anche il sentimento della patria lo sia. Perché la lingua, quando non venga imposta con la forza, è cosa molto meno esclusiva e assoluta del sangue, della religione o del territorio. L’identità linguistica è viva, complessa, dinamica: contempla i fenomeni della diglossia (anche il milanese è mia patria, in un senso avito e domestico), del bilinguismo, del plurilinguismo (delle lingue acquisite, o anche solo studiate -studium in latino significa, oltre che “impegno”, “desiderio”-, e poi usate con varia intensità, frequenza e padronanza). “Patria” sono le lingue in cui siamo in grado di capirci e di farci capire. E potremmo dilatare il campo ai linguaggi non verbali: alle espressioni artistiche e musicali, ai segni, ai gesti. Nessuna frontiera, dunque, ma una pluralità capillare di relazioni possibili. Ma attenendoci al nucleo (cioè alla lingua), la posizione di Primo Levi mi pare esemplare. La proprietà nell’uso della lingua italiana, trattata come uno strumento espressivo articolato, elegante, preciso; il rispetto profondo per i dialetti; la curiosità per le lingue minoritarie e di frontiera; l’interesse per la varietà dei modi di comunicare anche in assenza di lingue veicolari; la coscienza del plurilinguismo come strategia di comprensione della realtà. E, non ultima, la devozione per Dante (“padre”, appunto).