La stirpe e il sangue: una favola nera

20 Ottobre 2022

Quando il melo più antico del villaggio, l’unico che ancora dà frutti, inizia a bruciare, Radu ha da poco emesso il suo primo vagito, Maria lo stringe a sé insieme alla sorella Anna, nella capanna sporca di sangue sotto un cielo gonfio di tempesta.

Mentre lo prendeva per i piedi e “lo tirava via dalle gambe aperte della madre come un tubero marcio dalla terra”, la levatrice aveva letto cattivi presagi: “le Vântoase ci puniscono – aveva detto – questo figlio non è voluto dagli spiriti del vento”. Ma mentre fuori il melo brucia e il villaggio ha paura, pallido e minuscolo, Radu si attacca al seno della madre e butta le sue radici.

Radu è all’inizio e alla fine del romanzo di Lorenza Ghinelli (La stirpe e il sangue, Bompiani, 2022), ma quella che sta in mezzo è soprattutto la storia delle donne che lo strappano al suo destino di morte, lottando per la sopravvivenza con ogni mezzo, a costo di perdere l’innocenza, farsi predatrici, scendere a patti con il regno della morte e del sangue.

È il 1442, i turchi di Murad hanno superato lo sbarramento di valacchi e ungheresi e avanzano verso Nord. Quando le capanne di Sârgsor prendono fuoco Maria è appena diventata vedova e madre del secondo figlio, e mentre l’esercito ottomano incendia ogni cosa su cui inciampa lo sguardo, Maria fugge insieme ai suoi due bambini: dietro ha il villaggio acceso dal fuoco, davanti la foresta e la notte nera. Piena di paura, Maria corre verso il buio. La foresta è grembo scuro e inospitale, “li accoglie, li nasconde, li inghiotte. La foresta è matrigna: li graffia”, e la foresta è anche il luogo peculiare di un rito di passaggio, della prossimità con la morte, della rinuncia a una parte di sé e della conseguente rinascita. 

Al centro della trasformazione c’è il sangue: il sangue è vita, Maria lo sa bene, lo ha sentito dal primo istante, “è stato naturale, come partorire, sopravvivere, come uccidere il lupo nel bosco.” Nella foresta notturna i tre fanno esperienza delle spietate leggi della natura e della sopravvivenza, nella prima di molte prove che ostacoleranno il loro cammino.

Da qui ha inizio una storia che assume i contorni e la struttura di una favola nera, con i diversi capitoli a rimarcarne caratteri e funzioni e i colori e le atmosfere delle illustrazioni di Darkam, in un crescendo di cupezza e intensità, a enfatizzare trappole, traguardi e crocevia di un percorso tetro e accidentato.

Dopo la foresta verrà una casa di uomini, regole da infrangere, potere da sfidare, sopraffazione e forza bruta a cui sopravvivere grazie all’astuzia e al raggiro, sfruttando la propria posizione sottomessa, l’arroganza e l’ottusità dei prevaricatori.

m

Maria è disposta a tutto per salvare sé stessa e i suoi figli: sopportare soprusi, custodire oscuri segreti, covare dentro di sé, come si cresce un figlio in grembo, odio e dolore, ordire con pazienza e cura, come un lavoro a maglia o un ricamo, una vendetta feroce.

Le prove che Maria e sua figlia Anna dovranno affrontare hanno sempre a che fare con la loro identità di donne: in quanto donne verranno sottomesse, violate, svilite e giudicate stolte, insincere, malfide, e solo accettando la propria natura più intima sapranno servirsi del proprio potere, farsi sorelle, streghe, regine, incutere terrore negli uomini, sfruttarne lussuria, pregiudizi e paura, sfidare con saggezza e audacia la boria e la prepotenza maschile.

Come i racconti più tradizionali, La stirpe e il sangue è un libro di soglie – il bosco, la casa del cacciatore, il nascondiglio nella casa della vecchia strega –, ed è un libro di rituali, di oggetti-talismano e di prove da superare.

Della favola, il romanzo conserva anche una certa polarizzazione dei personaggi, caratteri non piatti ma puri, che incarnano apparentemente senza scampo la propria natura: gli uomini sono brutali, guerrafondai, ottenebrati e instupiditi da impulsi ciechi, dalla brama di potere e predominio; le donne agiscono invece un femminile che si esprime nella solidarietà, nell’istinto di protezione; anche loro sono spesso mosse da una selvatica ferocia, ma orientata alla conservazione e alla difesa della propria vita e dei vincoli di sangue e d’amore.

Le donne che vincono, nel romanzo, sono quelle che restano fedeli a una natura che è madre tanto leale quanto crudele, quelle che non si sottomettono all’uomo, non si alleano con i carnefici e, in caso contrario, come accade per le prime serve del cacciatore, la natura le disconosce, le ripudia, le divora.

Radu, il figlio maschio, nel romanzo cresce come l’erba cattiva, come un’eccezione, incarna un maschile deviante, è gracile, pallido, ripudiato dagli uomini e da ogni figura paterna che compare sulla scena, perché non riconosciuto come pari. Salvato da donne, apprendista di streghe, Radu diventa partecipe di quella stessa natura ferina e imparziale che assorbe dalle donne che lo crescono e dal sangue che lo nutre.

Radu è un filo rosso intessuto nel romanzo, e se l’intreccio principale accompagna il viaggio delle due eroine, Maria e Anna, fino a chiudere degnamente il loro percorso, sul finire del libro la storia di Radu è appena iniziata e comincia a scavare il solco della sua personale leggenda.

Come detto, della fiaba il romanzo ricalca parte dell’architettura, dei personaggi e dell’immaginario e delle fiabe più nere ha anche la spietatezza che non risparmia la conclusione, che con la severità proverbiale della morale ristabilisce gli equilibri infranti, ripaga sangue con sangue, risana le ingiustizie e, mentre scrive la parola fine, apre la strada a nuove storie da raccontare.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO