Le stanze degli intimi supplizi

20 Giugno 2013

Tutti vanno e vengono, in genere. In casa, per strada. Si imbattono distratti infastiditi ciechi oppure compassionevoli invadenti moralisti nei guai degli altri, nel soffrire. In Invidiatemi come io ho invidiato voi c’è una donna ormai fatta cagna che ha perso tutto, che sviene per strada, che si confessa in chiesa: è un prima, o forse un dopo che viene fuori a poco a poco, aggalla dalle chiacchiere della gente, piano piano focalizzando sulla cognata, sul marito ebete e imbecille (interpretato dal drammaturgo e regista, Tindaro Granata); lei voleva l’amante, lei voleva farsi vedere, lei voleva tirarsi su, farsi invidiare dopo avere invidiato, e tanto tiene a quell’uomo che la compra, che gli dà in pasto la sua bambina, fa finta di non capire che l’uomo che lei vuole è un porco, un pervertito, un pedofilo che forza la sua bambina giorno dopo giorno e mese dopo mese. In un tempo in cui il teatro contemporaneo ha esaurito una stagione di effetti speciali emozionali, corporei, coreografici, audiovisivi, suggestivi, sonori, luministici, molto teatro al Festival delle Colline Torinesi diretto da Sergio Ariotti è ritornato al testo; al testo scritto dagli attori, o a classici della letteratura. Il testo di Granata è costruito per ellissi: la vergogna, il quibus, viene fuori alla fine, e tutto finisce prima che la nausea del disgusto tolga all’ascolto. Parlano parlano parlano tutti. Tutti chattano in un parallelo soliloquio di sé sul sé che incrocia l’altro senza interesse ad ascoltarlo.

 

Invidiatemi, Mariangela Granelli

Rooms for error è di nuovo a Vercelli, nella casa materna di Roberta Bosetti. L’anno scorso lei ne raccontava l’assenza, la memoria. Stavolta, ci dice il regista-psicopompo Renato Cuocolo ricevendoci ancora una volta come fosse una vera visita privata, la madre è tornata a casa dalla casa di cura, c’è una badante romena che si aggira come un servo di scena tra quelle stanze/scene, ambigue sui confini di intimità valicabili o voyeuristicamente sbirciabili appoggiati in quindici alle pareti domestiche: la prima, in cucina con Bosetti che nevrotico-erotica, con occhialini da rito massonico (dall’oscuramento dell’ignoranza alla Luce), e colonna sonora auto-programmata con lettore cd e mini-amplificatore, comincia a leggere integralmente Voglia di dormire, di Cechov. Var’ka è una ragazza servetta; nella casa del padrone artigiano deve fare di tutto: sfangare gli stivali, cucinare, attizzare il samovar, ma soprattutto, cullare il bambino che strilla nella culla, strilla sempre, e non la lascia mai dormire. Il racconto, breve e spietato, racconta il delirio di stanchezza della poveretta, i suoi dormiveglia, i ricordi che affiorano dalle palpebre pesanti come allucinazioni della veglia. Sino a che Var’ka soffoca il bebé urlante, e finalmente può dormire… Nel secondo atto Bosetti riceve in un'altra stanza, e racconta in soggettiva: Var’ka è lei da grande, forse morta? Forse in galera? È proprio Roberta? È tutta nera, come una lugubre Medea. La terza room svela Bosetti sdraiata sul lettone a braccia e gambe spalancate, c’è solo un abat-jour fioca, è vestita da clown (Buffalmacco, la maschera di Viareggio, dice uno dei quindici, dopo in strada) e delira nel sonno, febbrile, smozzica la storia di Var’ka che tutti ora sappiamo a memoria. La badante legge stentando Minima moralia di Adorno.

 

Lo splendore, Riccardo Spagnulo, Licia Lanera

Lo splendore dei supplizi è palese nella performance di Fibre Parallele: Licia Lanera e Riccardo Spagnulo scrivono e interpretano quattro pannelli di torture più o meno domestiche. Il boia alza e cala il sipario tra i quattro capitoli. Foucault aleggia dal suo Sorvegliare e punire. Sorvegliare, sorvegliamo noi guardando, ma punire si puniscono da soli, il marito e la moglie proprio incatenati con due catene al divano della crisi e poi della noia e poi dell’indifferenza coniugale, separati da un orrendo gatto da salotto finto come quelli delle cappelliere in auto, il malato di slot machine che ha fatto a pezzi la vecchia madre e l’ha cacciata nel surgelatore in garage per giocarsi la sua pensione compulsivamente sino al pignoramento finale totale dell’ufficiale giudiziario, la badante che odia odiata la vecchia (come si aggirava in casa Bosetti, una vera badante), il vegano giustiziato.

 

Visto che nessuno ci castiga più, né da piccoli né da grandi, ecco che la necessità del castigo come argine all’ego e mortificazione dell’altro si direbbe rifugiato nelle nostre camerette post-piccoloborghesi. Gli orrori e le crudeltà rendono vivace la nostra vita intima.
 

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