Le voci di Servillo

3 Aprile 2013

I morti sono più dei vivi, le ombre rivelano ciò che nella luce ignoriamo, nei sogni alligna il lato oscuro della realtà. Il centro delle Voci di dentro di Eduardo De Filippo secondo Toni Servillo sembra risiedere nel secondo atto: quando scompare la stanza chiara dell’inizio, arredata solo con un tavolo bianco, due sedie bianche e un mobiletto da cucina bianco, e si rivela il retrobottega buio della casa dei fratelli Saporito. Un velo trasparente fa scorgere cascate di povere vecchie sedie ricevute in eredità dal padre per un mestiere di apparatori di feste in crisi. Sembrano sculture dell’arte povera. Da quel crepuscolo verranno i personaggi della famiglia Cimmaruta ad accusarsi l’un l’altro dell’omicidio di Aniello Amitrano, denunciato nel  primo atto dal protagonista Alberto Saporito, sostenuto dal fratello spione e affamato, Carlo. Peccato che Alberto il fatto se lo sia solo sognato: ma quando se ne rende conto, e lo rivela, nessuno gli crede. Vuol dire che nei sogni, che avevano aperto la commedia, con la cameriera abbandonata sul tavolo dormiente, tutti credono.

 

 

D’altra parte la storia, in quella stanza bianca, su una piattaforma aggettante al di qua dell’arcoscenico contro la platea, quasi per mettere in primo piano cinematografico i volti degli attori, comincia con una sequela di sogni di morte e uccisione. Prima la cameriera (Chiara Baffi, molto napoletaneggiante nel ruolo che fu di Angela Pagano, Isa Danieli e Marina Confalone) racconta la caccia a un verme che si trasforma in caccia del verme contro di lei, con cuore che esce sanguinante dal petto; poi la zia, Rosa Cimmaruta (una sostenuta Betti Pedrazzi, sulle orme di Titina, Dolores Palumbo e Pupella Maggio), racconta di un capretto in cilindro che si offre per essere scannato e si trasforma, sul tavolo di cucina, in “nu bello piccerillo biondo, riccio riccio”, che i commensali si mangiano a pezzi, in una fantasia onirica che niente ha da invidiare al Tieste di Seneca. Con il portiere, il bravo Marcello Romolo (tra gli antecedenti ricordiamo Enzo Cannavale), che rimpiange il tempo dei sogni come passato, perché “mo si sono imbrogliate le lingue”; quando era giovane, allora sì: “certe volte mi facevo dei sogni talmente belli che mi parevano spettacoli di operetta di teatro”.

 

 

In mezzo c’è stata la guerra. Le voci di dentro Eduardo la scrisse in pochissimo tempo nel 1948, quando le speranze di Napoli milionaria e di Filumena Marturano erano ormai sbiadite nella delusione per ciò che l’Italia non era diventata (in mezzo ci sono i compromessi, le autoillusioni e gli sconforti di Questi fantasmi, Le bugie con le gambe lunghe, La grande magia). Con Le voci siamo nella farsa nera. Toni Servillo, nell’allestimento che ha debuttato al Piccolo Teatro di Milano, spinge, soprattutto nei primi due atti, proprio il pedale della teatralità dirompente, un po’ guittesca e compiaciuta, arrivando dalle parti del melò e perfino, in certi momenti, della sceneggiata. Si tratta, in uno spettacolo che è stato prenotato già da teatri di tutto il mondo, che segue a distanza di più di dieci anni il successo di Sabato domenica e lunedì (un altro Eduardo, alle soglie del boom economico, più “borghese” e di conversazione), di un birignao calcolato, di una teatralità esteriore che serve a mascherare l’imbarazzo per una realtà fuori controllo, sfuggente alle definizioni e alle certezze, con le lingue “imbrogliate” o azzittite.

 

 

Perciò centrale è il secondo atto, giocato tra il rivelare e il celare. Dall’ombra avanzano in proscenio i personaggi della scassata famiglia Cimmaruta, che si mantiene con un’attività di cartomante ai confini della prostituzione della moglie Matilde, mentre il marito Pasquale, un Gigio Morra che dà al personaggio toni corrucciati di notevole potenza, si adatta al ruolo per lui devastante del ruffiano travestito all’orientale. Appaiono i figli, la zia, pronti ad accusare l’uno o l’altro dei congiunti, per discolparsi. Ma anche tra i Saporito regna il tradimento. Il fratello Carlo (qui interpretato con toni puntuti e svagati insieme dal vero fratello di Servillo, Peppe, la voce degli Avion Travel; si ricorda nella parte Aldo Giuffré) fa vedere quelle sedie a un sensale per venderle di nascosto da Alberto, mentre lo zi’ Nicola ha deciso di chiudere i rapporti con il mondo e di rompere un silenzio, che oggi definiremmo beckettiano, solo con un elementare ma fragoroso linguaggio di fuochi d’artificio. Interpretato dal mago della fonica Daghi Rondanini, vive in una soffitta, chiusa da una tenda: non si vede, solo si sente.

 

 

La soluzione di tutto avverrà, nel terzo atto (ma qui non ci sono intervalli, solo brevi bui di stacco in meno di due ore a ritmo serrato), in una luce da laboratorio scientifico. Le ombre saranno diradate da confessioni che inchiodano i colpevoli alla responsabilità di non fidarsi più l’uno dell’altro, di aver distrutto ogni vincolo di comunità. Qui Toni Servillo diventa asciutto, feroce, quasi rassegnato: consapevole, col suo personaggio, che siamo solo nel prologo della disgregazione antropologica e sociale del Paese. Il morto non c’è mai stato. L’attore ci risparmia qualcuno dei pistolotti didattici che Eduardo inanellava nel finale: bastano gli sguardi, i silenzi, l’allegria forzata da italiani che l’han scampata dei Cimmaruta che si scoprono reciprocamente innocenti. Sono sufficienti la confusione del messaggio finale in fuochi artificiali che zi’ Nicola manda da morto e la ritirata di Carlo che, scoperto nel suo tartufismo, si rifugia nel sonno. Mentre il portiere ricorda ancora che i sogni, una volta, erano diversi: “Certi sogni che mi facevano svegliare così contento… mi parevano spettacoli di operette di teatro…”.

 

 

Questa edizione del testo di Eduardo, così dichiaratamente fatta per piacere e giocata sul gigionismo, si allontana dalla linea inaugurata da Leo de Berardinis col suo Adda passà ‘a nuttata in cui lavorava pure Servillo. Là si cercava un De Filippo profondo, inquieto, psichico, di nuovo civile. Qui in certi momenti il protagonista ricorda più la vitalità guittesca di Peppino che la rastremata astrazione di Eduardo. Eppure l’ispirazione popolare, in cerca della risata che scoppia immancabile, e il piacere del gioco teatrale aiutano a rivelare come ancora più abissale lo smarrimento di una realtà disgregata, indistinguibile dai peggiori incubi notturni.

 

 

In scena al Piccolo Teatro Paolo Grassi di via Rovello a Milano fino al 28 aprile; dal 7 al 31 maggio al teatro Argentina di Roma.

 

 

Le voci di dentro di Eduardo De Filippo, 
regia Toni Servillo, 
scene Lino Fiorito, costumi Ortensia De Francesco, 
luci Cesare Accetta, suono Daghi Rondanini
, assistente alla regia Costanza Boccardi, 
con (in ordine di apparizione) Betti Pedrazzi, Chiara Baffi, Marcello Romolo, Lucia Mandarini, Gigio Morra, Peppe Servillo, Toni Servillo, Antonello Cossia, Vincenzo Nemolato, Marianna Robustelli, Daghi Rondanini, Rocco Giordano, Maria Angela Robustelli, Francesco Paglino. Coproduzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatro di Roma, Teatri Uniti, 
in collaborazione con Théâtre du Gymnase, Marseille, 
in occasione di Marseille Provence 2013 Capitale Européenne de la Culture.

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