Nei labirinti di Thomas Bernhard

24 Dicembre 2015

Siamo oltre l’amato Ludwig Wittgenstein in Ritter, Dene, Voss di Thomas Bernhard. Siamo oltre il consiglio, l’acquisizione finale del suo Tractatus logico-philosophicus: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Nella commedia del 1986 (è davvero una commedia? o piuttosto è una tragedia? Per parafrasare il titolo di un raccontino, sempre dell’autore austriaco: ma forse è una tragedia travestita da commedia o viceversa…), in Ritter, Dene, Voss si parla, si parla tantissimo, su una realtà oscura, indecifrabile, intessuta di odi familiari cresciuti lungo anni e anni, con idiosincrasie che hanno portato alla follia, con megalomanie e vuoti affettivi che hanno fatto marcire per sempre, sotto la crosta di perbenismo borghese, tre vite, quelle dei fratelli Worringer.

 

Ritter, Dene, Voss in foto Mazza, Palminiello, ph. Claudia Marini

 

È un balletto familiare di due sorelle intorno a Ludwig, controfigura mascherata e grottesca del filosofo Wittgenstein, mescolata con quella del suo nipote pazzo del romanzo Il nipote di Wittgenstein. In libera uscita dallo Steinhof, il manicomio di Vienna, posto non distante dal sanatorio dove l’autore, Bernhard, trovava ricovero per le sue crisi di respiro, che tanto hanno influenzato l’andamento circolare e franto, ansimante, della sua scrittura, Ludwig viene portato a casa dalla devota sorella Dene, in una sala da pranzo borghese, carica di ritratti di famiglia, dove l’aspetta anche la sorella più piccola e più disincantata, Ritter. Benvenuti nell’inferno di casa Worringer, in una tesa battaglia che ha per arma principale il linguaggio, che gira, rigira intorno ai complessi primari, agli odi, alle disperazioni, ai fallimenti individuali, per esplodere in certi momenti di tensione fortissima intorno a un pranzo, accompagnato da musiche classiche (tra tutte l’Eroica di Beethoven).

 

Lo ha portato in scena a Bologna, all’Arena del Sole, Pietro Babina, un regista che negli anni novanta, con Fiorenza Menni, fondò Teatrino Clandestino. Con quella compagnia creò spettacoli in cui la parola entrava in tensione con originali apparati di immagine: o scenografie digitali o veri e propri trompe-l’œil elettronici che davano l’impressione di ambienti e corpi veri, doppiati dal vivo dagli attori, come in Madre e assassina. Si trattava di atmosfere magiche, evocative più che descrittive, che mettevano in discussione la realtà e la nostra percezione di essa. Poi, come spesso avviene, i due si sono separati, e i rispettivi cammini sono diventati forse più accidentati, alla ricerca di nuovi segni. Babina, dopo alcuni esperimenti più direttamente impegnati sul versante della ricerca delle possibilità delle nuove tecnologie, sembra approdare al mercato del teatro di prosa e di regia con i recenti impegni come scenografo di Io sono il vento di Jon Fosse, e come regista di questo Ritter, Dene, Voss voluto da Emilia Romagna Teatro Fondazione, ultima produzione di quel teatro nazionale nel 2015.

 

Ritter, Dene, Voss in foto Palminiello, Mazza, ph. Claudia Marini

 

 

Nelle stanze della psiche

 

Un sipario rosso carico, aggettante verso lo spettatore, chiude una stanza circolare segnata da un’informe verticale credenza verde pisello, con un tavolo simile a un clavicembalo deforme dall’ispirazione trapezoidale di una tinta tra il rosa il lilla e il viola. Carta da parati a rombi e alcuni quadri che incombono sulla scena (gli spettatori ne vedono il retro). È il soggiorno di casa Worringer, luogo infero travestito da galleria d’arte tendente al kitsch contemporaneo, arena dove si scontrano due sorelle fallite nelle loro aspirazioni: una, la più giovane, Ritter, cinica e disillusa, incapace, peraltro, di staccarsi dal nido paterno, l’altra, Dene, materna e ansiosa. Sono attrici per noia che grazie alla ricchezza di famiglia possiedono un teatro dove possono recitare quando vogliono cosa vogliono. Il sipario, che si richiuderà girando su se stesso a ogni fine d’atto, si apre prima del pranzo con il fratello pazzo e geniale, il filosofo, portato a casa dal manicomio. Iniziano a prendersi le misure le due donne e subito è distanza e incomunicabilità (ma è come se ci fosse squarciata una scena quotidiana che si ripete simile, con contenuti differenti, da anni). Al loro fianco si agitano i fantasmi del padre e della madre, di anni di oppressioni familiari, di irrisolti nodi psichici e di esistenza, di rinunce, investimenti sbagliati, ferocie.

 

La tesa Ritter è Francesca Mazza, una storia teatrale ricca anche lei, attrice formatasi nella compagnia di Leo de Berardinis e poi approdata a varie esperienze (con Fanny & Alexander, con Accademia degli Artefatti e Teatri di Vita per citarne solo alcune). Dene è Renata Palminiello, anche lei carica di percorsi fuori dai ranghi, a partire da una Signorina Else da protagonista con Thierry Salmon. Ludwig, che all’inizio solo incombe, e si manifesterà nel secondo atto, è Leonardo Capuano, potentissimo attore capace di dare spessore corporeo e accensioni ignee alle parole.

 

Ritter, Dene, Voss in foto Palminiello, Capuano, Mazza, ph. Claudia Marini

 

 

Wittgenstein, Frege e altre maschere

 

Il testo fu scritto nel 1984 e rappresentato solo nel 1986. Si inserisce dunque nell’ultimo periodo, il più complesso, della carriera di Bernhard (che morirà nel 1989, meno che sessantenne). E raccoglie molti dei motivi germinati in quello straordinario momento, lo stesso di capolavori come i romanzi Antichi maestri e Estinzione. Lo scrittore austriaco misantropo e nichilista guardava il mondo come un ignobile verminaio di viltà, corruzione, ignavia, interesse, rivelandosi uno dei più acuti interpreti della crisi tardo-novecentesca, capace di leggere l’avanzare della società dell’egoismo e del pregiudizio come pochi. Rovistando nel fondo conservatore, cattolico, affaristico e nazionalsocialista dell’anima austriaca, premonì il pericolo xenofobo di Haider e adepti, che allora si stava appena manifestando. Ritter, Dene, Voss è un insieme di scatole cinesi, un gioco sulle apparenze, le convenzioni, le menzogne sulla vita e sull’arte, e sul nocciolo di dolore reale del mondo. Ludwig è curato da un dottore che si chiama beffardamente Frege come il grande logico matematico, e nelle sue allusioni a Wittgenstein diventa una maschera altra dello sforzo di Bernhard di interpretare una verità continuamente sfuggente sotto un’apparente trasparenza (che è quella nella quale pare passiamo i nostri tempi continuamente interconnessi).

 

Benemerita e coraggiosa è l’idea di mettere in scena questo autore, che Emilia Romagna Teatro persegue promettendo anche altri allestimenti (un Prima della pensione l’anno prossimo), anche se Bernhard avrebbe bisogno di opere di mediazione presso un pubblico sempre più disabituato all’avventura e al rischio intellettuale. La sala alla seconda rappresentazione era desolatamente mezza vuota, pur non essendo molto grande. Errori di promozione? Disinteresse del pubblico per una compagnia senza nomi di divi famosi sui palcoscenici al cinema o alla televisione, o piuttosto diffidenza per un testo contemporaneo, di un autore ritenuto forse difficile (o sconosciuto)? Non c’è risposta univoca.

 

Ritter, Dene, Voss in foto Palminiello, Capuano, ph. Claudia Marini

 

 

La regia, il testo

 

Le occasioni di scontro tra i fratelli sono molte. Fino a quando Ludwig, di fronte a una tavola allestita con cibi virati su colori squillanti, irreali (cocomeri blu, arrosti verdi…) non rompe del tutto gli argini, contro quella casa oppressiva, contro i brutti ritratti degli avi che incombono, esempio di cattiva arte, di arte kitsch possiamo dire noi, che voleva eternare solo il potere economico senza interesse reale per gli esiti espressivi. Le sorelle, anche loro, vengono colte in castagna: si sono fatti dipingere e alla venuta del fratello hanno nascosto le tele in una cantina rivelata da inquietanti controluce dal basso (anche se gli attori, rispettando il testo, dicono “soffitta”). Giace sotto, dentro, celata, la verità, sepolta da qualche parte: una verità di vanità, di finzione, di incapacità di vivere una vita impossibile.

 

Il testo contiene altre scatole cinesi: per esempio i nomi del titolo derivano dagli interpreti della prima edizione con la regia di Claus Peymann, Ilse Ritter, Kristen Dene, Gert Voss, in un’ulteriore sovrapposizione impossibile e sfuggente tra arte e vita. L’arte può rappresentare solo la deformazione della vita, sembra dirci Bernhard, del terrore del vivere. Ma Ritter aggiunge: “Rifugiarci nel teatro / non è servito a nulla / alla fine è solo una messinscena”.

 

Ritter, Dene, Voss in foto Mazza, Palminiello, Capuano, ph. Claudia Marini

 

Lo spettacolo di Babina spicca per le idee di regia e per il concentrato impegno degli attori. Eppure dà l’idea di scorrere sempre come con il freno tirato, distante dalla forza del testo, al di qua del suo magma ribollente. Ritter guarda lontano in un telescopio; Dene avanza come una cieca, per provare la sua futura parte teatrale ma anche con un evidente senso simbolico; Ludwig è un pazzo che dice la verità e rompe gli argini della ipocrita rassicurazione. Ma è come se ognuno degli attori, pur bravi, andasse per proprio conto, in un quadro ben identificato, con poche idee di regia, e perciò riduttivo per un testo polimorfico come questo. È spinta sul fumettistico con una nota infantile e impotente Mazza; è grigia, rassegnata, assuefatta, come da copione, Palminiello; è pazzo energico, a volte perfino da barzelletta, Capuano. La miscela non c’è o non funziona. Il terrore che il regista dichiara di voler suscitare, oltre ogni tradizione di interpretazione intellettuale di Bernhard, non scoppia, anche se sono evidenti le intenzioni di disegnare un mondo di incomunicabilità, una realtà deformata, irreale, minacciosa nella sua inquietante bella fattura visiva e perfino nei colori acidi dei cibi.

 

Idee come partiti presi che ammazzano nella noia un testo che forse dovrebbe essere giocato di più sul kitsch di una polverosa stanza biedermeier o jugendstil, da manichini metafisici, oppure, come nell’originale o come in messinscene ormai classiche come quella di Krystyan Lupa, da attori a tutto tondo, capaci di distanza e di furia partecipativa, connessi l’uno con l’altro perfettamente perché ci pensa l’autore a disgiungere, ad aprire crepacci, false piste, abissi, fissazioni. Oppure – in quello spazio algido da design pensato da Babina, che ogni tanto al girare del sipario annuncia il soffiare di venti cosmici e rivela scheletri umani dai rottami delle chincaglierie del mobile rovesciato – forse avrebbe funzionato di più una recitazione brillante, quasi da commedia americana, come cicaleccio, come brusio sul vuoto che aleggia, che dilaga. Non si capisce, qui, se l’operazione di travasare la ricerca teatrale degli anni passati in quella macchina tritatutto che è il teatro di prosa, il nostro teatro di prosa, abbia qualche possibilità di creare fervide alchimie. Sicuramente quella vista a Bologna è un’opera in bilico, riuscita a metà.

 

 

 

Ritter, Dene, Voss di Thomas Bernhard, regia di Pietro Babina, si può rivedere al Teatro delle Passioni di Modena dall’8 al 17 gennaio e a Bologna, sempre nella sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole, dal 19 al 31 gennaio.

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