Fisiognomica del disumano / Occhi di donna

19 Luglio 2018

Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, come hanno scritto i filosofi antichi, cosa c’è nell’anima di questa donna? Molto più che paura o sconcerto. C’è l’orrore, quello di chi è stato lasciato in balia delle acque su un gommone a malapena galleggiante, e ha visto morire la propria amica e il figlio su quella zattera sconquassata dai marosi. Quegli occhi esterrefatti, increduli, occhi che dicono tutta la tragedia e insieme la negano: Non è possibile! Ditemi che non è possibile! Occhi imploranti, come abbiamo imparato purtroppo a conoscere da quando la fotografia documenta le guerre e i massacri: il terrore indicibile dei sopravissuti. E ancora più indietro nei secoli, da quando la grande pittura racconta il dolore dei dolenti, del Cristo in croce e delle donne all’intorno. Sono gli occhi di Maria presso il corpo del Figlio. La mano che accarezza e insieme sostiene quel viso rende manifesta una pietà che altri non sembrano provare. La pupilla scura e il bianco attorno, la bocca appena aperta, il biancore accennato dei denti tra le labbra socchiuse: non possono lasciare che interdetti.

 

Com’è possibile che non si soccorra in mare queste donne, che non le si porti in salvo sulla terra ferma? Ogni volta che sento il Ministro dell’Interno usare l’espressione “come padre”, mi domando dove stia la paternità di cui parla, e non posso fare a meno di pensare che sia solo un modo di dire, che Matteo Salvini non sappia davvero cos’è la paternità, se non come un fatto meramente biologico, non certo come stato d’animo, come pathos o pietà, quella che si prova dinanzi a ogni forma di vita. Questi occhi gridano tutto il dolore del mondo, quello cui non sappiamo rispondere se non la durezza del cuore e con la crudeltà delle leggi. Non ci sono altre leggi per gli esseri umani che quelle dell’anima, leggi che suggeriscono la misericordia e la compassione per l’altrui miseria.

 

Nell’etica cristiana, quella che ci hanno insegnato i Padri della Chiesa, la misericordia non è solo un sentimento, ma una virtù spirituale, una delle fondamentali virtù della nostra civiltà. “Beati i misericordiosi perché avranno misericordia”, così parla Gesù alle folle convenute ad ascoltarlo. Questi occhi dovrebbero togliere il sonno a chiunque abbia emanato l’ordine d’abbandono delle due donne e del bambino, a chi non ha avuto pietà per tre giovani vite umane in balia delle onde. Non dovrebbe più aver pace per il seguito dei suoi giorni.

 

Il cuore non conosce altra legge che la compassione. Il cuore non conosce altro ordinamento giuridico, o trattato internazionale, se non quello che nasce e vive nel cuore di chi ha un’anima. Ma c’è chi quest’anima l’ha persa, non l’ha più, e grida ai quattro venti: Io tengo duro. Duro cosa? Il cuore o la cervice? Entrambi, viene fatto di dire. A un certo punto del suo romanzo dei deboli e dei poveri Manzoni fa dire a un suo personaggio: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!”. Non sono un credente, ma guardando questa immagine della donna salvata dalle acque prego che, se c’è un Dio, apra il cuore di uomini che non sembrano più averlo. Apra il cuore a coloro che parlano il linguaggio dell’insensatezza, che non è neppure un linguaggio della politica ma della propaganda, il linguaggio della menzogna e dell’inganno. Mi rifiuto di credere che la pietà sia morta su quel fuscello di gomma sgonfia alla deriva nel Mediterraneo per quarantotto ore. Chi l’ha tratta in salvo, gli uomini e le donne dell’Ong, ha seguito un imperativo morale che non può più essere obliato, per cui non esiste tribunale umano che lo possa giudicare o legge che lo possa respingere. L’imperativo morale è ciò che ci rende umani, oggi come ieri.    

 

In forma appena più breve questo articolo è apparso ieri su “La Repubblica” che ringraziamo.

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