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Occhio rotondo 15. Casa volante
Nel corso degli ultimi due anni Silvia Camporesi ha pubblicato due originali libri di fotografie dedicati all’Italia. Il primo Cappella Espiatoria, Monza (Corraini Editore 2022) è un breve reportage dedicato a uno dei monumenti inabitabili più lugubri della storia italiana costruito lungo il viale che porta alla Villa Reale della città brianzola, nel luogo stesso ove il 29 luglio 1900 l’anarchico Gaetano Bresci uccise il Re d’Italia Umberto I. Si tratta di un’opera che pochi conoscono e quasi nessuno visita più, retaggio di casa Savoia nel penultimo capitolo della sua breve storia di dinastia regnante.
L’anno seguente Silvia Camporesi ha dato alle stampe un altro volume per le stesse edizioni Corraini intitolato Mirabilia, un viaggio compiuto per lo più all’esterno, all’aria aperta, in luoghi bizzarri della Penisola. Si tratta di spazi naturali, prodotti dall’azione degli agenti ambientali (vento, acqua, mare, terremoti, colate laviche, eccetera), ma anche dall’intervento umano (templi, chiese, teatri, biblioteche, case, manufatti, di varia forma e misura e altro ancora). Si tratta di un viaggio iniziato nel 2015 e completato solo nel 2023, controcanto d’un altro lavoro della stessa Camporesi, Atlas Italiae.
L’influsso di Luigi Ghirri, topografo del Bel Paese, è evidente. Tuttavia nel lavoro della fotografa romagnola c’è qualcosa che nell’opera di Ghirri non affiora mai, o in modo molto limitato: la bizzarria. Il paragone con il lavoro di Silvia Camporesi aiuta a capire l’originalità di entrambi i lavori. Per quanto commissionato da una istituzione come il Ministero della Cultura, lo stile con cui la fotografa ha documentato il sacrario archeologico della Cappella Espiatoria – nome quanto mai emblematico – manifesta la cocciuta ricerca di qualcosa che ecceda la normalità della visione che abbiamo dello spazio intorno a noi. O meglio delle architetture naturali o artificiali che sfuggono alla nostra idea di “normale”. Sono tutte eccezioni che Silvia Camporesi ha ritrovato nel suo itinerario mentale, oltre che visuale, e quindi fotografato.
Dietro la sua ricerca c’è un libro a suo modo altrettanto singolare scritto da Gabriele Mina, Costruttori di Babele. Sulle tracce di architetture fantastiche e universi irregolari in Italia (Eleuthera). Mina ha censito gli allievi immaginari di Gaudì che hanno edificato al pari dell’architetto della Sagrada Familia, costruzioni abnormi, eccentriche e strampalate. Silvia Camporesi applica il medesimo sguardo diagonale di Mina anche al paesaggio naturale, là dove si sono create, grazie al lavoro delle forze naturali, forme inconsuete che colpiscono la fantasia e l’immaginazione (grotte, anfratti, monoliti, colline, cumuli, specchi d’acqua, voragini, eccetera). Sono forme che, come spiega la fotografa a Cesare Pomarici in un dialogo, producono inquietudine: questa è per lei la bellezza. L’esatto opposto di Ghirri, per cui la bellezza è invece tranquillità, pace e serenità. Si può dire che il lavoro visivo del fotografo emiliano è stato quello di abituare il nostro sguardo allo spazio aperto, senza confini, uno spazio immenso, oppure al contrario ristretto, rimettendolo in equilibrio grazie a uno sguardo frontale.
Non si può però dire che Ghirri addomestichi il paesaggio, il mondo là fuori, piuttosto ci apparenta alla sua estensione per offrirci una visione riflessiva e composta dell’infinita superficie delle cose che, come la definisce il signor Palomar di Calvino, è inesauribile – l’inesauribile è sempre inquietante per un essere che è al contrario esauribile e finito. Silvia Camporesi agisce in modo contrario, per quanto il risultato formale del suo lavoro sia sempre equilibrato: basta osservare come inquadra i suoi “oggetti” naturali o artificiali mettendoli al centro d’un rettangolo visivo composto e armonico, quasi volesse equilibrare il sussulto che l’occhio fa guardando ciò che lei ha ritratto. La parola giusta per definire i suoi oggetti, e forse anche la sua fotografia in generale, o almeno quella di queste due opere, è bizzarro.
Cosa ci suscita, ad esempio, La Casa Volante di Castelnuovo Magra in Liguria? Eccola qui davanti a noi nelle pagine del volume: una villetta a un piano, con tetti spioventi, terrazzi e terrazzini; una “casa geometrile” per dirla con Celati. Somiglia ad alcune case ritratte da Ghirri, ma qui c’è qualcosa di diverso. Questo monotono e ordinario edificio civile per abitazione è issato su una serie di bracci metallici, dei longheroni, che ricordano il gioco del Meccano. Alcuni, posti in orizzontale, fungono al centro da pilastro di sostegno, mentre altri, disposti in diagonale, sono sostegni ulteriori, che servono a slanciare la casa verso l’alto, a issarla. La struttura, poi, è appoggiata a sua volta su un binario munito di ruote, come se si trattasse d’una specie di vagone, o locomotiva, che si sposta avanti e indietro sulla rotaia.
Questa casa l’ha inventata, o meglio costruita a partire dal 1977, senza progetto scritto o disegnato Annunzio Lagomarsini, un imprenditore edile, quando è andato in pensione. Vi ha lavorato sette anni recuperando materiali da cantieri edili e navali, come racconta Mina. La prerogativa di questa casa è quella di alzarsi spinta dai longheroni fino a venti metri di altezza e di ruotare di 360° per seguire il movimento del sole per una distanza massima di 12 metri. Lo scopo, ha detto Annunzio, è di poter ricevere luce e calore a sua richiesta e della moglie Emilia. Oggi non funziona più. Il meccanismo si è rotto. Silvia Camporesi ha inquadrato la casa in modo da darci l’idea della composizione incoerente di forma metallica e forma edile: due pezzi compositi e non integrati visivamente, insomma incongrui.
Un “mostro”. Bizzarro è il termine giusto per definire questo edificio come la ricerca visiva del volume di Silvia Camporesi. L’etimo di questo aggettivo è incerto. Qualcuno lo fa derivare dallo spagnolo bizzaro, che significa “coraggioso”, il quale forse viene a sua volta dal basco bizar, “barba”, assunta nel significato simbolico di forza e ardimento. In italiano c’è anche la parola bizza, sostantivo femminile, per indicare un accesso improvviso di collera. Una parola che figura in Pinocchio: fare le bizze, i capricci. In effetti tutti gli “oggetti” colti dalla macchina fotografica di Silvia Camporesi sono dei “capricci”, voglie improvvise, spesso ostinate, come se la Natura o l’ingegno di personaggi strani, uomini e donne, avessero voluto dare forma a qualcosa di passeggero e insieme irrefrenabile.
Un catalogo di capricci questo bellissimo volume intitolato Mirabilia, forme estrose e fantastiche, ma anche instabili, rese permanenti e memorabili dallo sguardo a sua volta appassionato, metodico e bizzoso della fotografa. Memorabilia ovvero cose da ricordare perché c’è sempre un altro lato, il rovescio di quello che vediamo ogni giorno e che costituisce la nostra “normalità” visiva. Con il suo viaggio in Italia Silvia Camporesi lo mostra. I suoi scatti lo mettono davanti agli occhi per ricordarci che c’è un’altra parte. Il rovescio o altro ancora?
In copertina, Silvia Camporesi © Casa Volante.
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