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Occhio rotondo 23. Camini
La didascalia è: Vecchi camini a Montparnasse. In realtà, a parte quello nel mezzo, che sembra avere la forma d’un vero camino per via della copertura tondeggiante, gli altri sono dei tubi: uno grande in metallo scuro, che si vede appena dietro a tutti, poi tre più piccoli anch’essi di metallo, sette invece di materiale ceramico, infine uno dall’incerta natura. Sono tutti insieme, gli uni accanto agli altri, come un’orchestra di fiati: soffiano verso l’altro, ma non esce nessuno sbuffo di vapore o di fumo. Vecchi camini significa che sono spenti. Perché André Kertész li avrà fissati in questa immagine, “prima del 1936” come recita la didascalia completa? Al fotografo ungherese trasferitosi a Parigi undici anni prima i tetti interessano parecchio per via della scelta stilistica di fotografare dall’altro verso il basso. Ci sono varie immagini dove a ben guardare si scorgono in cima alla sommità dei palazzi queste bocche cilindriche di modesta altezza, che sbucano dai muri perimetrali. Del resto, nella mostra aperta a Torino presso “Camera” sono esposte altre fotografie che ritraggono i camini di un’altra delle sue città, New York (André Kertész. L’opera 1912-1982, a cura di Walter Guadagnini e Matthieu Rivallin, Dario Cimorelli Editore). Una di queste immagini, scattata a 73 anni nell’aprile del 1967, quando aveva cominciato a ricevere quel riconoscimento atteso da molti decenni, mostra in primo piano una serie di camini metallici ben più complessi e compunti di quelli modestissimi di Parigi; dietro di loro s’intravede il muro di un edificio e l’inizio d’un ponte metallico che supera l’Hudson nel riquadro in basso dove appare il fiume. Anche questi non fumano, mentre un fumo deciso sale dal muro retrostante, là sul fondo. Gli stessi sono oggetto di uno specifico ritratto di gruppo preso nel medesimo luogo: una piccola popolazione urbana con buffi copricapi orientali in cima, e un camino a tre bracci che sembra un animale mitologico, l’Idra a tre teste. Sono oggetti sicuramente, ma sono anche qualcosa di diverso. Forse non a caso un altro abitante dell’Europa centrale, il romeno Saul Steinberg, anche lui ebreo emigrato in America, era attratto dai camini dei palazzi newyorkesi, tanto da utilizzare le loro immagini fotografiche come elementi inseriti nei propri disegni. Nessuno di questi camini parigini e newyorkesi sembra un camino in senso tradizionale, come quelli che coronano i tetti delle case e che i bambini inseriscono nei disegni dell’abitazione ideale. Probabilmente questi a New York sono camini che si possono classificare come moderni, atti a portare i fumi di caldaie in alto e disperderli nel cielo. In altre immagini del medesimo periodo (1967-69) in una serie di ritratti di scale di sicurezza nei retri dei palazzi della metropoli americana i camini fungono da “personaggi”. Perché l’ungherese Kertész è attratto da queste “forme”? La risposta è semplice perché è attratto dalla forma in generale. Inoltre, ancora più dei modernisti americani, Alfred Stieglitz e Paul Strand, Kertész è un sottile analista della modernità industriale. Una delle foto più famose del fotoreporter ungherese – come lo classifica acidulo Juliet Hacking in un suo rapido ritratto compreso in I grandi fotografi (Einaudi), demistificando la leggenda d'artista di Kertész – raffigura un altissimo ponte su cui transita una locomotiva sbuffante, Meudon (1923), simbolo stesso della modernità trionfante. In questo scatto realizzato nel periodo francese si vede l’altra faccia del fotografo ungherese: la malinconia, che ispira tutta la scena sottostante – le case, la strada e un uomo che reca sotto il braccio un pacco ingombrante. I tubi di Vecchi camini a Montparnasse non fumano più, sono oggetti inerti, inutili. Ma sono anche oggetti artistici, come quelli che si inventava Picasso, il geniale maestro di un’intera generazione di pittori modernisti, o come le bottiglie di Morandi, discepolo metafisico di Picasso. Come ha spiegato molto bene nelle pagine dedicate al fotografo ungherese Geoff Dyer in L’infinito istante (il Saggiatore), “qualcosa in Kertész desidera nostalgicamente il futuro”. Lo scrittore inglese cita come prova della malinconia alcune fotografie dedicate alle panchine, in particolare la Panchina rotta del 1962, in parte divelta con quel signore di schiena, mani intrecciate dietro, che la guarda. Sballottato dai venti più o meno avversi della sua biografia, tra cui l’approdo in USA in cerca di lavoro e la costrizione di restarvi per via della guerra mondiale scoppiata, Kertész ci appare come un uomo estremante malinconico, un emigrante che ha perso la propria patria lontana, un déraciné insomma. Ha vissuto a Parigi dal 1926 al 1936 e a New York dal 1936 alla morte nel 1985. Dyer ci dice che lo era già a Budapest, quando ha cominciato a fare il fotografo giovanissimo insieme al fratello giovane Jeno. I tubi di Parigi, meno moderni di quelli di New York, sono come le sentinelle del Vecchio Mondo, l’Europa, mentre gli svettanti tubi del Nuovo Mondo sono il prodotto di una tecnologia più avanzata, sono più tubi, anche se come i loro fratelli europei non fumano più. La “nostalgia del futuro”, ambigua formulazione di Dyer, è una perfetta definizione di un artista così complesso e inventivo come Kertész, così affascinato dagli aspetti formali ma anche così sentimentale, come racconta Hacking. Per essere dei grandi fotografi bisogna unire due cose così opposte? La domanda non ha una risposta semplice. Certo che la sentimentalità dell’ungherese si manifesta qui attraverso la capacità di fare di vecchi e inutili tubi dei personaggi da ritrarre, quasi degli alter-ego reperiti nel cuore di due differenti e antitetiche metropoli della modernità: lui è i suoi camini.
André Kertész, Vecchi camini a Montparnasse, prima del 1936, © Donation André Kertész, Ministère de la culture (France), Médiathèque du patrimoine et de la photographie, diffusion RMN-GP
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