Occhio Rotondo 30. Arcaico

5 Maggio 2024

In un sottopassaggio che dal piazzale antistante la Chiesa di Sant’Antonio da Padova conduce alla Stazione Garibaldi a Milano un ignoto artista ha tracciato sui muri un ampio graffito raffigurante una misteriosa storia di difficile decifrazione. Ritrae personaggi d’un regno extraterrestre, figure filiformi mai viste, e perciò stesso affascinanti. Per circa tre anni questi graffiti, quasi invisibili per via della loro sottile traccia, sono rimasti sulla lunga parete del sotterraneo senza che nessuno osasse aggiungere altri segni o sovrapponesse i propri graffi a quella lunga partitura narrativa. Poi finita la pandemia il muro è stato ridipinto e il graffito è scomparso, per quanto sotto il velo di vernice dovrebbe esserci ancora. 

Questo disegno mi è tornato improvvisamente in mente mentre guardavo alcune delle fotografie di Brassaï esposte nella mostra a Palazzo Reale a Milano intitolata Brassaï. L’occhio di Parigi. Gli scatti sono riportati anche nel catalogo edito da Silvana Editoriale, a cura di Philippe Ribeyrolles. Nell’arco di un ventennio, tra il 1930 e il 1950, il celebre fotografo ungherese (il suo vero nome era Gyula Halàsz) ritrasse innumerevoli graffiti dei muri di Parigi. Pubblicati nelle riviste surrealiste questi scatti resero famosi i segni selvaggi lasciati da mani diverse in luoghi secondari o appartati della capitale francese. La serie fu poi esposta al MOMA nel 1956 e pubblicata nel 1960 in un volume; da allora è stato più volte ristampato. Come scrivono gli studiosi, queste fotografie influenzarono gli artisti francesi e non solo. Com’è noto, la loro diffusione poi negli anni Trenta nelle pagine delle riviste dell’avanguardia provocarono, insieme agli scritti di George Bataille e Michel Leiris, dei ripensamenti sull’idea di arte occidentale introducendo la nozione di un’arte selvaggia, cui seguì l’avvento della cosiddetta Art Brut.

Quello che colpisce in questi graffiti è proprio l’entità del graffio stesso. Per quanto Brassaï incentivasse con un oculato uso delle ombre e del rilievo la profondità degli scavi, alcune delle “immagini primitive” (così le aveva chiamate il fotografo) sono delle vere e proprie incisioni realizzate non con strumenti grafici consueti, i cosiddetti tracciatori, che lasciano un segno sulla superficie del muro, ma scavando la parete medesima. C’è in questi segni una forza appunto brutale. Se la confronto col segno sottile dell’ignoto artista del sottopasso sembrano l’esito di solchi profondi, escavazioni realizzate con oggetti metallici e contundenti. La più nota di queste immagini di Brassaï, battezzata dal fotografo “Il Re Sole”, raffigura un viso umano con al centro due orbite vuote di forma circolare, e due fori più piccoli: il naso; sopra si vede distintamente una sorta di raggiera che si diparte dal capo. Tutto intorno al volto vi sono tracce di altri segni in direzione verticale ed anche obliqua, come se una o più persone avessero graffiato senza una precisa intenzione espressiva la superficie di quella che sembra una pietra (la data della fotografia fissata da Brassaï è: “anni trenta e cinquanta”). Un altro graffito reca come titolo “L’amore” e raffigura un cuore, e sembra, a un primo sguardo, tracciato nel medesimo luogo o su una parete similare. Nel catalogo un testo di Silvia Paoli ricorda come il fotografo ungherese ritornasse a fotografare il medesimo graffito a distanza di anni, annotando su un quaderno i cambiamenti avvenuti, come se si trattasse di un’opera collettiva, oltre che il prodotto dell’azione d’un singolo autore. 

Dopo che un imbianchino delle Ferrovie Nord ha steso una mano di tempera bianca sull’opera del mio anonimo artista, mi sono chiesto: il creatore della storia fantastica disegnerà qui un altro graffito? La risposta è negativa. Non c’è stata nessuna decorazione ulteriore e successiva. Per cui quando ho visto le fotografie di Brassaï nella mostra – in realtà rivisto, dato che nell’arco di qualche decennio le avevo osservate su libri, cataloghi e pubblicazioni – mi sono interrogato sull’azione reiterata dell’autore o degli autori dei solchi. Più che graffiti a mio avviso si tratta di vere e proprie sculture, dove invece di sporgere come nei classici bassorilievi le figure appaiono per sottrazione. C’è in questa attività di scavo qualcosa di remoto, una lotta con la materia medesima, per creare un’apparizione, per far emergere un segno dal nulla della superficie piana, incidendo, erodendo, graffiando. Forse è proprio questo che rende queste immagini così impressive. 

Oggi i Writers, i graffitari, hanno preso il posto degli incisori di Brassaï sui muri più o meno abbandonati delle nostre città. Nelle loro opere la scrittura sostituisce la scultura. Inoltre la firma appare il carattere dominate dei graffiti metropolitani diventati arte da esporre nei musei nel corso di alcuni decenni. Il selvaggio s’è forse civilizzato? La potenza dell’immagine tramandata dallo scatto del fotografo ungherese risiede nell’essere prima di tutto un ritratto non umano: una misteriosa divinità, egizia, azteca o maya? Come nel disegno sottile del sottopasso milanese emerge il bisogno di qualcosa d’altro, qualcosa d’oltreumano, o forse piuttosto di preumano, qualcosa d’arcaico e di remoto, e insieme anche di futuribile, che è lo stigma dell’arte senza tempo comparsa nelle grotte 30.000 anni fa. A intervalli più o meno regolari appare in luoghi inattesi: sui muri abbandonati, sulle pareti d’un gabinetto, nei corridoi di un sotterraneo, per ricordarci qualcosa che non ha nome come il misterioso dio di Brassaï.

Brassaï, Il Re Sole, anni trenta e cinquanta, © Estate Brassaï Succession, Paris

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