Speciale
Occhio rotondo 32. Finestra
Questa immagine, presa dall’interno d’un treno, mostra una portafinestra e dentro il rettangolo una porzione di mondo là fuori: un campo arato, degli alberi intorno a una casa, una porzione di cielo; azzurro e marrone sono le due campiture prevalenti di questo riquadro. Che cos’è una finestra? Un’apertura. Serve ad arieggiare l’ambiente in cui ci troviamo e a guardare fuori. Sembra che la parola sia d’origine etrusca entrata poi nel latino e arrivata sino a noi. La sua etimologia è incerta. Le finestre ci permettono di osservare il mondo. È un quadro quello che si vede? Piuttosto una porzione di realtà incorniciata dal rettangolo nero. Le fotografie, del resto, sono delle finestre, così come i quadri. Giulio Paolini ha detto che guardare un quadro è come stare alla finestra. È vero. E non è altrettanto vero che anche i nostri occhi sono una finestra? Verso la fine del suo libro Palomar Italo Calvino s’interroga su come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l’io. Una domanda inattuale vista l’invasione di io che c’è oggi in ogni sguardo gettato sul mondo. Nel capitolo di quel volume pubblicato nel 1983 lo scrittore sottolinea come di solito si pensa che l’io “sia uno che sta affacciato ai propri occhi come al davanzale di una finestra e guarda il mondo che si distende in tutta la sua vastità lì davanti a lui”. Così ci appare. C’è però una domanda importante. Se là davanti c’è il mondo, di qua cosa c’è? La risposta che si dà Calvino è semplice: “Sempre il mondo: cos’altro volete che ci sia?”. Insomma, “l’io non è altro che la finestra attraverso il quale il mondo guarda il mondo”. Poi aggiunge un aspetto importante: “Per guardare se stesso il mondo ha bisogno degli occhi (e degli occhiali) del signor Palomar”. La fotografia è esattamente questo: uno sguardo che viene da fuori, come scrive Calvino. Non tanto o non solo da dentro – l’introspezione resta pur sempre uno degli aspetti importanti di questa arte –, ma proprio da fuori. Da tempo sappiamo che, non solo noi guardiamo le cose là fuori, ma che le stesse cose ci guardano. L’hanno scritto in tanti, soprattutto poeti, narratori e artisti. Calvino aggiunge una considerazione importante: “è dalla cosa guardata che deve partire la traiettoria che la collega alla cosa che guarda”. Possiamo dire che il paesaggio che c’è dietro questa finestra – i campi, la casa, la vegetazione, il cielo – ci guardano? Che con questo scatto si è fissato lo sguardo del paesaggio su chi guarda? E come è possibile che ci sia davvero là fuori uno sguardo che attende chi guarda? Forse “dalla muta distesa delle cose” parte un segno, un richiamo, un ammicco? In cosa consisterebbe questo cenno d’intesa? Se l’era chiesto anche Montale in una sua poesia, e gli sembrava di averlo percepito, di averne sentito la presenza, per quanto fuggevole. Questa fotografia presa da un treno in corsa è una simile occasione? Sono tutte domande cui è difficile rispondere. Calvino è convinto che prima o poi si possa verificare qualcosa del genere. Una fortunata concidenza: “il mondo vuole guardare ed essere guardato nel medesimo istante” e il signor Palomar si è trovato a passare lì in mezzo. Forse è accaduta la stessa cosa anche in questo scatto. Bisogna essere fortunati perché avvenga? Non è necessario. “Queste cose accadono soltanto quando meno ci s’aspetta”. Come qui. Il mondo guarda il mondo attraverso la finestra d’un treno.
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