Speciale
Occhio rotondo 33. Conchiglie
La scatola di cartone contiene delle conchiglie. Sul lato anteriore è stampigliato: New Zealand. Sono valve estratte da uno scavo in corso a Auckland, una grande città di quel paese. La fotografa l’ha ritratta di scorcio facendo volutamente percepire il tavolo su cui è appoggiata. La conchiglia è una struttura rigida che custodisce animali marini privi di scheletro (molluschi, brachipodi, ostracodi). Mentre si passeggia sul bagnasciuga d’un litorale in qualsiasi luogo del mondo ci si trovi capita di vederne diverse sulla sabbia. Il primo impulso è quello di fermarsi a raccoglierle. Le conchiglie possiedono qualcosa di particolare. Per via della loro semplice bellezza, per la loro essenzialità, o forse per altre misteriose ragioni, attraggono lo sguardo dei bambini e insieme quello degli adulti. Quelle accatastate nella scatola sono state estratte da uno scavo praticato da una grande macchina. Stanno costruendo un tunnel che servirà a impedire che l’acqua piovana della città di Auckland si mescoli con quella delle acque reflue degli scarichi urbani. Giulia Parlato, una giovane fotografa, ha seguito i lavori d’escavazione in cui sono venute alla luce conchiglie di varia forma mescolate alla terra e al materiale roccioso. Nel libro dove ho visto questa fotografia ci sono altri scatti che fissano antiche ammonite a forma di spirale fuse nella roccia (Auckland Central Interceptor, pubblicato da Quodlibet per un progetto della Ghella, azienda italiana specializzata in scavi sotterranei, esposto al Maxxi). Forse anche quelle incluse nella cassetta cartonata sono conchiglie fossili rimaste imprigionate nel suolo ed emerse attraverso il rivolgimento degli strati di terra. Qualcuno le deve aver disposte nel contenitore rettangolare di cartone per salvarle dalla dispersione. Una collezione, o invece qualcosa di più casuale e meno sistematico. La fotografia gioca col bianco dello sfondo e del tavolo, e bianche sono le stesse valve incluse nell’imballaggio. Resti d’un passato remoto. La Nuova Zelanda è una terra di origine vulcanica e nella stessa Auckland ci sono dei residui vulcanici, rocce basaltiche, che in passato furono rimosse per fare spazio alla pista d’un aeroporto, come si racconta nel testo che accompagna le immagini. Questo accumulo eteroclito di conchiglie possiede uno strano fascino anche per la sua forma. Mi fa pensare a una sostanza ossificata, ai residui di un’epoca molto lontana nel tempo, sebbene alcune delle conchiglie somiglino a quelle che si raccolgono ancora oggi sulle spiagge di tutto il mondo: acanthocardia tubercolata, detta cuore, coi suoi raggi e le semplici bivalve delle vongole. Da ragazzo raccoglievo questi gusci da tenere sul tavolo, poi da adulto ho comprato calchi fossili di conchiglie per regalarli alle mie figlie. Guardando la scatola nella fotografia non posso fare a meno di pensare che si tratti di resti. La scatola mi appare come un piccolo ossario, un sacello, in cui è raccolto ciò che rimane della vita passata, una vita scomparsa. Forse le conchiglie ci affascinano proprio per la loro durata, per la resistenza che dimostrano: arrivano fino a noi trasportate dalle mareggiate o reperite sottoterra, come nello scavo di Auckland. Appartengono all’archeologia della terra, e sono le testimoni mute della geologia intercorsa tra la loro apparizione e noi. Chissà se è stata questa la ragione che ha suscitato l’attenzione di Giulia Parlato. La storia di questo album di immagini commissionato da Ghella e curato insieme ad altri volumi da Alessandro Dandini de Sylva, possiede tuttavia anche un altro significato che la fotografa racconta in un colloquio nel volume. Un suo prozio, Francesco, uomo inquieto, poeta e pittore dilettante, era andato a vivere dalla Sicilia in Nuova Zelanda; curioso e melanconico scriveva per un giornale locale, Auckland Star, poi s’era trasferito a Taupaki, a nord di Auckland. Nel 1964 però era scomparso non dando più nessuna notizia di sé ai parenti rimasti nell’isola d’origine. Leggendo la sua storia narrata dalla bisnipote, ho pensato che quella scatoletta racchiudesse in modo metaforico le ossa del parente scomparso nel nulla: un ritrovamento insperato. Passando negli spazi del cantiere Giulia Parlato s’è fermata a scattare questa istantanea in modo inconsapevole. Gesto dettato da un moto pietoso? O solo una sua curiosità infantile? Sono solo mie immaginazioni. Davanti alle conchiglie fossili, o a quelle raccolte sull’arenile, noi viventi appariamo terribilmente fragili. Forse la malia che promana dalle conchiglie è proprio questo desiderio di tenere tra le mani qualcosa di remoto, che ha resistito all’incessante scorrere del tempo. Le valve, più o meno eleganti, che stringiamo nel palmo, dopo averle tratte dalla battigia, sono affascinanti per questo: un mistero imponderabile che dura da milioni e milioni anni. Tra altri milioni loro, le conchiglie, ci saranno ancora.
Giulia Parlato, Auckland Central Inteceptor, Quodlibet / Ghella, 2024. © Giulia Parlato
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