Ombre e gabinetti. Perfect Days di Wim Wenders
Wim Wenders riceve una lettera dal Giappone. Lo invitano a girare una serie di cortometraggi di 4-5 minuti ciascuno dedicati ai bagni pubblici di Tokyo e agli architetti che li hanno progettati. Lo scopo è quello di mostrare un aspetto importante della cultura giapponese: l’accoglienza. In quel paese le toilette sono qualcosa di più di semplici servizi igienico-sanitari, come spiega lo stesso regista tedesco in un’intervista. In Giappone si presentano come “piccoli santuari di pace e dignità”. Il suo committente orientale gli mostra una serie di foto che ritraggono queste piccole architetture presenti nella capitale giapponese e infine lo convince.
A Wenders piace l’idea di un’“arte” legata a questi luoghi e anche di “vederli in un contesto romanzato”. Così convince a sua volta il proprio interlocutore che invece d’una serie di brevi filmati si può costruire un’unica storia. Prima di farlo decide di recarsi a Tokyo, una città che lo aveva già attirato anni prima. Nel 1985 aveva girato un film di 92 minuti, Tokyo-Ga, dove Werner Herzog recita se stesso. L’attore giusto ora c’è. Si chiama Koji Yakusho, uno dei più famosi e bravi attori giapponesi. Così nasce Perfect Days scritto con Takuma Takasaki, scrittore, direttore creativo e sceneggiatore di celebri spot pubblicitari. L’idea di entrambi è quella di concentrare la trama del film su un personaggio che sia un addetto alle pulizie delle toilette di Tokyo: Hirayama.
La sua vita è semplice e monotona. Si alza ogni mattina, compie i medesimi gesti, beve il medesimo caffè ottenuto da un distributore automatico sotto casa, una modesta e minuscola abitazione a due piani situata nei pressi di una gigantesca torre di telecomunicazioni nel cuore di Tokyo. Quindi avvia la sua piccola macchina-furgone, dov’è stipata la sua attrezzatura, e si reca al lavoro. Nella pausa pranzo consuma il suo pasto tratto da un sacchetto di plastica sedendosi in un giardino sotto alti alberi da cui filtra la luce, oggetto prediletto dei suoi scatti ottenuti con una vecchia macchina analogica. Tutto si ripete immancabilmente ogni giorno, compresa la scelta dell’audiocassetta da inserire in un vecchio lettore in auto, l’acquisto di libri, il passaggio nel giorno di pausa nella lavanderia automatica, il pasto serale in un ristorante collocato nei pressi dell’entrata di una metropolitana.
La sera prima di dormire Hirayama legge romanzi: Faulkner, Patricia Highsmith e giovani autrici giapponesi. La musica che ascolta è quella, amata da Wenders, degli anni Sessanta e Settanta – The Animals, Lou Reed, Patti Smith, Van Morrison, The Velvet Underground, Otis Redding, Rolling Stones e altri – così come le citazioni letterarie e i Dvd che si intravedono nella casa del protagonista. Hirayama svolge il suo lavoro con costanza e accuratezza; s’è persino fabbricato degli strumenti per farlo. Parla pochissimo, solo a gesti del capo – si inchina, annuisce e poco altro –, in compenso sorride ed è il sorriso uno degli elementi centrali della sua personalità. Incarna in qualche modo l’aspetto dell’umiltà, virtù in cui si manifesta l’amore per il mondo, per le cose così come sono, ma anche la consapevolezza della propria parzialità. Hirayama non è modesto ma appunto umile, come il lavoro di lava cessi cui si dedica con costanza e precisione.
La macchina da presa indugia sulle architetture dei bagni, si sofferma sui dettagli dei gabinetti, dei lavandini, sui particolari degli scrosci dei water e delle piastrelle, sul modo in cui Hirayama li esamina e strofina. Poi piano piano emergono punti di rottura del tessuto uniforme che è la vita di Hirayama. Irrompe infatti nella sua trama giornaliera una giovane nipote fuggita di casa, poi c’è l’arrivo della sorella, che recupera la figlia e soprattutto c’è la scoperta di un’altra vita precedente di Hirayama, dettaglio che restituisce la consapevolezza che quella che ora conduce non è una vita infernale, bensì una scelta deliberata in rapporto a un prima che viene taciuto. Altri personaggi entrano in questo film della durata di 123 minuti, che ha fruttato a Koji Yakusho il premio per la migliore interpretazione a Cannes nel 2023: un giovane collega pulitore, la sua fidanzata, la proprietaria di un piccolissimo ristorante e il suo ex marito. Ma ci sono almeno due aspetti visivi che emergono nella trama lineare della storia, in cui la maggior parte del tempo è occupata dalle pulizie dei bagni: i sogni da un lato, e la presenza della luce e dell’ombra dall’altro.
Il primo riguarda le visioni notturne di Hirayama dormiente, create e firmate da Donata, la moglie del regista. Wenders ce le mostra in bianco e nero, come forme sfuocate e sfumate, decisamente enigmatiche, per quanto in qualche modo possiamo intuire di cosa si tratta, proprio come capita con i sogni al momento del risveglio: tutto è comprensibile e tutto è anche confuso. Il secondo è invece un tema proprio della cultura giapponese sintetizzato da una parola: komorebi, ovvero “la luce che filtra tra le foglie degli alberi”, come dice la parola, qualcosa di intenso ma anche d’instabile, di fluttuante e magico. Il tema del komorebi compare anche in un altro enigmatico film giapponese del 2023, Il male non esiste, diretto da Ryusuke Hamaguchi, che nel 2021 ha vinto con Drive My Car l’Oscar come miglior film internazionale.
Perfect Days tratta un tema visivo malinconico che s’adatta perfettamente alle tonalità emotive del protagonista di Wenders, alla sua ricerca di un elemento di immanenza, che egli vede incarnato nell’umile mestiere di pulitore: un’illuminazione quotidiana, costante come la luce che filtra attraverso le foglie del piccolo giardino dove egli pranza e dove incontra un senza-fissa-dimora, una sorta di clown folle e mansueto impegnato in pose gestuali plastiche.
La luce è uno dei temi ricorrenti dei film di Wenders, la luce assoluta dei film d’ambientazione americana, la luce grigia di Berlino e dei polizieschi, la luce ombrosa di altre pellicole per cui è giustamente famoso. Luce e ombra dunque, perché quelle della notte sono ombre luminose, mentre quelle del giorno appaiono invece luci d’ombra o come le ombre con cui giocano alla fine del film Hirayama e l’ex marito della gestrice del ristorante, che sentiamo cantare la versione giapponese di uno dei motivi conduttori del film: The House of the Rising Sun. Di lei il protagonista sembra innamorato, ma con molto pudore e rispetto. Sono le ombre-ombre con cui i due uomini scherzano a sovrapporle per poi pestarle reciprocamente, ombre che ricordano quelle di un classico della letteratura tedesca, il Peter Schlemihil di Albert von Chamisso, lui sì senza ombra, perché senza anima avendola già venduta al Diavolo. E ombre sono anche le fotografie che ogni fine settimana Hirayama fa sviluppare dal rullino della sua macchina analogica, che poi esamina la sera per verificare che corrispondano al suo disegno di ricerca della luce perfetta, fotografie in bianco e nero come i suoi sogni.
Gli scatti che non sono giusti vengono istantaneamente strappati mentre gli altri li ripone in scatole metalliche impilate in un armadio-archivio, che sembra contenerne centinaia, se non migliaia: una sorta di inconscio ottico del protagonista. Wenders, autore di L’atto di vedere, libro del 2002 in edizione italiana, ristampato di recente da Mimesis, ha scritto emblematicamente che esiste un rapporto stretto tra sogno e cinema, ovvero tra il sogno a occhi chiusi e quello a occhi aperti. Cosa ci racconta in definitiva Perfect Days? Una storia ordinaria, priva di colpi di scena, una vicenda a suo modo banale, che tuttavia innalza a narrazione emblematica. Hirayama è una specie di santo senza religione, come è proprio della stessa cultura giapponese, dello scintoismo e del buddismo, dove per essere santi non è necessario salire come uno stilita del III secolo d.C. su un’alta colonna e restarvi per tutta la vita, nutriti dalla carità altrui, a maggior gloria di Dio. La morale di Wenders è la stessa dai tempi di Nel corso del tempo, di Lo stato delle cose o del suo capolavoro Il cielo sopra Berlino.
Il protagonista di Perfect Days potrebbe benissimo essere uno degli angeli del film del 1987, Damiel o Cassiel, che ha lasciato la sua condizione di immortalità, per quanto in Perfect Days tutto sia più laico: Hirayama è stato probabilmente un uomo ricco e potente, così che non è più necessario ricorrere al tema “religioso” per ricavare una lezione di umiltà e di ben vivere o di santa letizia di chi trascorre serenamente ogni giorno come se fosse il proprio giorno perfetto. Se in Il cielo sopra Berlino l’attore americano interpretato da Peter Falk che arriva nella capitale tedesca, ancora divisa tra Est e Ovest, per girare un film, può ancora essere un ex angelo che ha rinunciato al suo stato divino, una sorta di alter-ego del regista del film, Hirayama è invece perfettamente secolarizzato, un uomo come tanti in quella megalopoli nota col nome di Tokyo, che mescola strade fantascientifiche a resti di antichi villaggi giapponesi, ponti senza fine che si insinuano come serpenti di cemento e asfalto tra i grattacieli e spazi con piccole abitazioni di legno e cartone.
La capitale giapponese è qualcosa di più dello sfondo di questa storia di vita ordinaria, è un personaggio essa stessa, mostrata da Wenders con la medesima ripetitività con cui Hirayama vive la propria reiterata giornata, quasi una pagina postmoderna tratta da La ripresa di Søren Kierkegaard. Il tema del rapporto tra luce, ombra e gabinetti è stato trattato da un grande scrittore giapponese, Junichiro Tanizaki, in Libro d’ombra (tr. it. di G. C. Calza, Bompiani), pubblicato nel paese orientale nel 1933. Tanizaki vi svolge l’elogio della penombra dei W.C. tradizionali giapponesi, situati in luoghi appartati del giardino di casa, molto diversi dai bianchi e igienici gabinetti occidentali. A Tanizaki rincresce la progressiva perdita di valore di questa semioscurità a vantaggio del progresso tecnologico importato dall’Europa e soprattutto dall’America.
Wenders mostra invece nel suo film come il carattere specifico di parte della cultura del Sol Levante, quello che conosciamo attraverso i libri di Daisetz T. Suzuki sullo zen satori, possa convivere pienamente con l’ipermodernità di Tokyo dove un uomo, che ha abbandonato ricchezza e fasti, ora veste i panni di un onesto Bartleby che invece di pronunciare la fatidica frase di Melville, “preferirei di no”, ripete ogni giorno il suo “preferisco di sì”, senza confliggere con niente e con nessuno, contento di essere il praticante d’una religione dedita all’armonia e al benessere di tutti quale via diritta di salvezza individuale.