Pinocchio fuori dal coma

10 Gennaio 2013

La commozione forte, quella che ti stringe un nodo alla gola, viene continuamente trattenuta dall’ironia nel Pinocchio di Babilonia Teatri. Il tono è drammatico e sorridente, come nelle vere favole. Della storia di Collodi rimane in un canto della scena un attore-macchinista col lungo naso posticcio, Luca Scotton, e ci sono tre “burattini”, persone che si muovono con qualche difficoltà, claudicanti, spezzate da un colpo della vita e non perfettamente ricomposte. Pinocchio, il nuovo spettacolo della compagnia veronese impostasi come una delle più originali della nuova scena italiana, è stato prodotto dopo un lungo laboratorio svolto con l’associazione Amici di Luca della Casa dei risvegli Luca De Nigris di Bologna, che si occupa di assistenza durante il coma e della successiva riabilitazione. Lo interpretano tre uomini usciti da quello stato di sospensione tra la morte e la vita, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli, con la regia di Enrico Castellani e Valeria Raimondi. Lo sguardo urticante sulla realtà degli artisti veronesi, di solito espressa con tremendi, frontali blob di parole e pregiudizi della società affluente lanciati a riempire vuoti di esistenza, in questo Pinocchio, come già si avvertiva nel precedente The End, si trasforma in ricerca di umana comprensione grazie alla scoperta del dolore attraverso l’abbraccio con persone che hanno lambito la morte.

 

 

Entrano uno a uno, barcollando come marionette, con i loro corpi offesi, in bermuda o boxer, gli attori. Non raccontano fiabe: dichiarano nome, cognome, età, interrogati, stuzzicati in modo leggero e divertito dalla voce del regista, proveniente dal fondo della sala, come un autore che voglia rivelare i propri personaggi giocando con al loro realtà e le loro maschere. Sono andati in pensione giovanissimi, ma non sono falsi invalidi. Rievocano di come un platano o la nebbia abbia attraversato loro la strada, di come siano stati trovati riversi contro un cassonetto, gli incidenti che li hanno portati in coma, sospesi nel buio come Pinocchio al ramo della grande quercia, come Pinocchio nel ventre del Pescecane in un antro oscuro in fondo al quale si intravedeva appena una fievole luce… Corpi trasformati in altri corpi, estranei, come Pinocchio pupazzo di legno, come Pinocchio ciuchino, risvegliatisi dopo tanto tempo, in modo lento.

 

 

Raccontano la malattia senza pietismi, ridendoci sopra, calandola, all’improvviso, nella storia del burattino che vuole diventare qualcos’altro, continuamente irrigidito dal suo corpo di legno e dall’indole indocile.

Quando si muovono, con i loro gesti impacciati, feriti, sembra di essere nel teatro delle marionette. Fanno esercizi, cercano di rendere morbide le articolazioni che il trauma ha irrigidito. Pare un balletto meccanico. Ma in questo mondo slogato il sogno non muore, come quando Pinocchio cade nel circo e gli sembra di vedere la Fata che sorride. “Ce l’avete un desiderio? - chiede la voce di Castellani - una fata turchina?”. E loro ce l’hanno, molto comune: la vorrebbero mora-occhiazzurri-single, italiana-dinamica-passionale, e così via. Sono fantasie di vita normale (la parola che più ritorna) quelle che emergono in modo struggente da questa realtà virata in nera favola. Fate intraviste in discoteca o in un giro in moto, un caracollare di corpi sulle sedie, unici arredi di scena, su strade dove ci si può perdere in una nebbia fitta.

 

 

Prima c’era la vita normale - ancora lei - il ballo, i bar, gli amici. Niente di strabiliante. Qualcuno lo racconta, ora, quel quotidiano passato come il Paese dei Balocchi. C’erano gatti, volpi, grilli parlanti, Lucignoli. La cosa difficile da ricostruire è la memoria di quel prima, la vita oltre quella nebbia, oltre la ferita, con faticati movimenti, con un parlare straziato che diventa un raglio che si trasforma in rantolo. Un pianto per la forma persa, dispersa.

“Ieri” è la parola che fa scattare il rimpianto, la memoria, lo strazio, in una intensa scena muta sotto la musica di Yesterday, con il testo affidato a cartelli, perché la voce non riesce a pronunciarlo. “Mi sembra di essere un fantasma, dopo due mesi di coma… Il fantasma di ciò che ero”. Si espongono ora con parole dirette, scabre, queste persone ferite, trasformate in ottimi attori che recitano, rievocano se stessi, per tornare a vivere. Abbracciano vecchi giochi, oggetti cari d’infanzia, come la pelle mutata. Mentre legano uno di loro, faticosamente, con l’aiuto del Pinocchio macchinista, a una corda. Salirà in cielo, come un teatrale angelo barocco, per provare a spiccare un volo di pochi metri, controllato, guidato, impudente come ogni immaginosa finzione di palcoscenico.

 

 

È uno spettacolo ruvido e delicato, che racconta il dolore esibendo, senza violenza, chi lo ha provato: per curare, per curarci ma non rassicurarci. Cerca nella favola, delicata e crudele, usata per bagliori, per associazioni e contrasti, la chiave, la sponda per pronunciare l’inesprimibile. Per mostrare, oltre l’handicap, oltre ogni tipo di legnosità, la voglia di vivere, di volare. Con la leggerezza dell’infanzia e con un lancinante senso di perdita. Con faticata curiosità. Per ricominciare, da come si è. Dal lato più opaco della realtà.

 

 

In tournée: 26-27 gennaio teatro Palladium Roma, 2 marzo teatro Puccini Firenze, 23-24 aprile La Soffitta Bologna, 21-26 maggio teatro Elfo Puccini Milano.

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