Renzi, il camperista
La foto che ritrae il giovane sindaco di Firenze sul podio della sua campagna per le primarie è maliziosa, ma qualcosa di vero intorno a lui lo dice comunque. Porta le mani alla testa, come a cercare un pensiero, a ricordare qualcosa, una forma di concentrazione improvvisa, un gesto da adolescente, a suo modo informale, là dove i politici del passato, ad esempio Aldo Moro, utilizzavano il gesto della disputa, ovvero il pollice e l’indice della destra che si chiudono ad anello stringendo l’anulare della sinistra, che serviva a mettere in risalto la precisione dell’argomentazione. Non si argomenta, si manifesta: Adesso!
Nello slogan con cui Matteo Renzi si presenta possiamo cogliere qualcosa d’altro. Il punto esclamativo, vero segno della sua propaganda, vale ben più dell’avverbio “adesso”. Verso questo segno d’interpunzione, divenuto un vero e proprio logo, il Novecento ha manifestato biasimo e forti riserve. Forse perché figurava nella propaganda mussoliniana, per cui l’esclamazione era la marca stessa della sua intonazione sonora e visiva. Pur nella concitazione delle campagne elettorali del dopoguerra Togliatti e De Gasperi evitavano di usare il corpo e i gesti, oltre le esclamazioni, per convincere, o rassicurare, i propri simpatizzanti, o militanti. Personaggi pacati – Togliatti secondo Italo Calvino manifestava una “assenza di nervi” –, per i due leader carismatici del dopoguerra la pacatezza valeva più di ogni altra cosa, mentre il punto esclamativo, come dicono i linguisti, è indice evidente d’agitazione. Erano dei professori o, come è stato detto, topi di biblioteca.
Ve lo figurate, voi, Renzi con gli occhiali? Se anche avesse un deficit visivo, ricorrerebbe alle lenti a contatto. Gli si addice infatti il volto sgombro, con la sua facciona rosea, la corporatura robusta, un poco rotondetta, nonostante qualche dieta dimagrante. Non vuole essere, né lo è, un intellettuale; non ne reca alcun segno specifico, anche se gli piace circondarsi di scrittori, intellettuali: il pensatoio. Renzi vive in un’epoca post-berlusconiana, in cui la politica si fa con la concitazione e soprattutto con il look. Ecco le maniche arrotolate, non fino oltre il gomito, come il suo concorrente, perché Renzi non ha nulla a che fare con il mondo contadino, con l’arrotolata del provinciale di Piacenza, in cui si legge ancora l’eredità del passato. La manica di camicia ripiegata del sindaco di Firenze vuole essere da manager, cui s’addice. Renzi, del resto, viene dal marketing, si presenta come ex imprenditore. Non ha il look da creativo, come Marchionne, tutto maglioncino e sciarpetta, o la barba incolta; Matteo è glabro, ben sbarbato.
L’aspirante segretario esprime piuttosto il tipo dell’italiano medio così come si è manifestato nello stereotipo cinematografico degli ultimi vent’anni, cinepanettoni compresi: volto aperto, casareccio. Finito il proletariato operaio, in canottiera, tuta blu, basco, ecco apparire l’uomo in braghe corte, appena sopra il ginocchio, scarpe sportive, camicia fuori dai calzoni, e magari un paio d’infradito nei piedi, di cui Bossi ci ha fornito un esempio populista e sbracato. Renzi alterna perciò la divisa da sindaco – giacca e cravatta di un unico colore – che esprime eleganza, ufficialità, coerenza, con quella più informale del giovane leone, che tiene aperta la camicia bianca sul petto di due bottoni quale segno di libertà e spensieratezza. Ha qualcosa del guascone, ma non troppo, perché è pur sempre un rappresentante delle istituzioni, che sa mettersi “comodo” fuori dai contesti cerimoniali. Ha acquisito la lezione berlusconiana della informalità formale: farfallino e jeans, frac e T-shirt, tuta e cravatta. È anche un uomo post-ecologista, che inforca la bicicletta, e si fa fotografare mentre guida una ruspa piuttosto che una fuoriserie: sportivo, casual, mai solenne. È in posa, anche se la sua è la posa di non aver posa: spontaneità glamour.
La giovinezza è la sua arma migliore. Una giovinezza che è più alla Kennedy che non alla Obama, designata dal ciuffo (anche se nella sua prima campagna elettorale il presidente americano si è avvalorato per il suo stile alla Kennedy, con moglie e figlie). La giovinezza del competitor di Bersani è quella del bamboccione che ce l’ha fatta, che ha trovato un lavoro, che è diventato sindaco, ma che è pur sempre uno-di-noi, un ragazzo che ha fatto carriera e che ora vuole dare – o restituire – ai suoi elettori (i coetanei) quello che gli spetta. L’epica del dono è uno dei motivi sottotraccia della sua campagna elettorale, in questo perfettamente a suo agio in un’epoca post-berlusconiana che non ritorna al passato, come propone l’etica di Mario Monti, una sorta di austerità imposta dalla razionalità dei mercati, piuttosto che dal francescanesimo berlingueriano e comunista. Renzi vuole andare avanti, o almeno così lascia intendere, e non ha davvero dei modelli certi né nel look né nella politica. Assembla, mescola, ibrida, congiunge, nello stile e nelle parole.
La scelta del camper per la campagna delle primarie in questo è davvero emblematica. Non il pullman di Prodi, simbolo di una retorica ulivista fondamentalmente parrocchiale, da gita sociale, luogo aggregativo di persone e realtà diverse (il messaggio era: Salite a bordo, c’è spazio!). Prima ancora che al camper di Craxi, parcheggiato ai bordi dei congressi negli anni Novanta, salottino mobile e alcova, dove ricevere i leader degli altri partiti, e non solo loro, quello di Renzi è il veicolo dell’italiano medio che si sposta lungo la penisola, o in Europa, portandosi dietro la propria casa: guscio, carapace, abitazione a tutti gli effetti, che coniuga insieme Home sweet home e bisogno d’avventura, che manifesta un’indipendenza, ma anche una diffidenza verso luoghi e usanze altrui. Non rinuncia a viaggiare e a conoscere, avendo però cura di alloggiare ovunque con il tappetino del Welcome steso davanti all’ingresso.
Se l’automobile era lo strumento delle campagne elettorali di Berlinguer, come di Bossi, con cui macinare chilometri e chilometri ogni giorno, il camper è, come spiegano i camperisti stessi, il mezzo dell’operatore turistico di se stessi. Questo strumento di trasporto e di vacanza esprime una forma di autonomia perfettamente in linea con l’idea di libertà che è propria degli italiani (e non solo loro): caricare il minimo indispensabile, salirci sopra e partire. Per andare dove? Dove ci pare e piace. Il camperista viaggia in assoluta libertà, senza schemi predefiniti.
Per Renzi è molto di più che uno strumento con cui spostarsi, è l’emblema stesso della sua politica fai-da-te che sta mettendo insieme, fondata sulla personalità pubblica più che sui programmi o le alleanze, e che ha messo alle sue spalle, almeno per il momento, la militanza dei partiti storici e anche del leghismo. Si basa sul look, eppure non disdegna l’elemento provinciale ben presente nel brianzolo Berlusconi, ed è tutto sommato piccolo borghese, quando la piccola borghesia è scomparsa diventando tutto-in-tutti. Mediatico e simbolico a un tempo, pragmatico e spettacolare, Renzi ha lasciato alle sue spalle il Big Bang della Leopolda, più veltroniano e baricchiano, per scendere sulla strada: più mani strette e meno sale di congressi, più campagne all’americana che non passerelle con scrittori o economisti.
Una ulteriore metamorfosi, una delle tante a cui, se un po’ di successo gli arride, ci abituerà in futuro, perché l’unica cosa che non gli manca, nonostante l’avverbio con il punto esclamativo, se non altro per l’età, è il futuro, di cui gli altri leader del Pd non sembrano anagraficamente molto dotati. Le loro facce, in un’epoca in cui per far politica bisogna “mettercela”, sono obiettivamente consumate, fissate in maschere e stereotipi da cui faticano a uscire. Sul piano dei simboli sono già stati battuti, comunque vadano a finire queste primarie e le elezioni del prossimo anno.
Questo articolo è apparso su L’Espresso.