Sacchettini: teatro nel ventunesimo secolo

12 Maggio 2023

Comincia con l’attentato alle Torri Gemelle e si chiude con la serrata nelle case causata dalla pandemia un libro di teatro. Parte con “l’immagine di un uomo ossessionato dalla paura di morire in una sua camera d’albergo anonima, dal design contemporaneo, forse di un lussuoso motel americano, con un fastidioso rumore bianco di sottofondo”, come una scena da Grande Fratello Mediaset: Motus, Rooms, estate 2001, l’ansia dei non-luoghi e di un quotidiano minacciato. Si conclude con la frammentazione delle vite causata dal Covid-19 e dal lockdown, i tentativi (fallimentari) di trasferire il teatro sul web, l’emersione alla riapertura delle sale di “alcune contraddizioni nelle quali vive il teatro” di questo inizio secolo, sempre più polverizzato. “Chiaramente sono apparse le differenze enormi che intercorrono tra le grandi strutture dei grossi centri e le piccole e medie compagnie di provincia”, ossia il tessuto di quella che è stata la diversità italiana, con un ampio movimento di gruppi votati alla ricerca. 

Dal 2001 al 2020 e 2021. È questo l’ambito cronologico in cui si dispiega un bel libro di Rodolfo Sacchettini, studioso di radio e radiodrammi e attento critico teatrale, di quelli che “scrivono sulle riviste” e che quindi mirano ad allargare, approfondire, contestualizzare, rilanciare. Si intitola Il teatro dentro la storia. Opere e voci dalle Torri Gemelle alla pandemia ed è pubblicato da una nuova casa editrice di Prato, Anthology Digital Publishing, che si presenta così: “Casa editrice digitale di testi universitari e del campo professionale. Pubblichiamo i saggi di docenti, ricercatori, delle fondazioni e istituti di didattica”.

Il libro ripercorre il teatro di questi primi vent’anni del secolo con attenzione alle esperienze che hanno saputo innovare linguaggi e temi, rappresentando in vari modi le crisi di smarrimento, non solo estetico, che stiamo attraversando. Lo fa in tre sezioni diverse. La prima è un’introduzione critica che prova meritoriamente a tracciare un primo quadro di anni disseminati di esperienze in quello che è stato definito “teatro d’innovazione”, “teatro di ricerca”, “teatro contemporaneo” e in molti altri modi. Annoda fili dispersi; senza perdersi nel gusto delle etichette prova fenomenologicamente a rintracciare e tracciare le esperienze, le loro ragioni e le connessioni con le tensioni dei tempi. La seconda parte contiene l’approfondimento di un’opera per ogni anno considerato, con titoli scelti, da Solo Goldberg Improvisation di Virgilio Sieni a L’ultima eredità di Oscar De Summa, “con l’intento non di stilare una classifica, ma di esplorare i linguaggi artistici nel loro sforzo di restituire, con intraprendenza ed efficacia, le trasformazioni le contraddizioni del nostro paese, i desideri e le inquietudini dell’individuo ormai proiettato nel ventunesimo secolo”. La terza, infine, interroga, con approfondite interviste, una decina di artisti, registi, attori, scrittori, che hanno iniziato a lavorare nell’ultima parte del Novecento e che costituiscono un filo conduttore tra il passato recente e il futuro.

Le recensioni provengono in gran parte, come accennavo, da riviste di approfondimento, dallo “Straniero” e “Gli asini”, gloriose imprese editoriali dirette da Goffredo Fofi, fucine di talenti critici; da “Altre velocità”, redazione intermittente (online) fondata nel 2005  da un gruppo di osservatori e critici delle arti sceniche, che provano a rimeditare l’attività e la funzione critica con interventi di presenza nella scuola e nella società teatrale; da rielaborazioni di interventi dell’autore per libri collettanei. Pure le interviste hanno fonti diverse, con una buona presenza di trascrizioni (e rielaborazioni) di trasmissioni realizzate per la radio Rete Toscana Classica.

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Virgilio Sieni, Solo Goldberg Improvisation.

In questo articolo mi soffermerò soprattutto sulla prima parte, quella che cerca di intessere una storia del teatro più recente, intercettando il bisogno che traspare in molte sedi di tracciare specificità, di definire confini, per quanto labili e in metamorfosi, quando tutto sembra polverizzarsi o venire riassorbito in un panorama in cui solo le esperienze delle grandi istituzioni hanno spazio. Cosa si muove ai margini della grande spettacolarizzazione, dello spettacolo marketing cui assistiamo in molte produzioni di Teatri nazionali e Teatri di rilevante interesse culturale (Tric)? Cosa c’è di vitale oltre le produzioni con forti investimenti economici, nomi di richiamo, enormi numeri e gigantesca ricerca di consenso, lavori che, come quelli della televisione, compiacciono la voglia di facile comprensione e coinvolgimento, di storie senza asperità che di-vertano scivolando leggere, con qualche apparente barlume di complessità, qualche specchietto per le allodole culturale, sostanzialmente disimpegnate, anche quando fanno finta di trattare temi “politici”? Storie che generano qualcosa che assomiglia al rumore della teoria della comunicazione, inquinamento. Gli esempi sarebbero molti, dagli adolescenti “inalberati” del Romeo e Giulietta di Martone, allo scombinato drammaturgicamente e coreograficamente insufficiente, noiosissimo Lazarus di Valter Malosti e Enda Walsh da David Bowie, tutto incentrato su due star canore come Manuel Agnelli e Casadilego, a Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, ridotto da Massimo Popolizio a un dramma di gelosia alla Cavalleria rustica, recitato sempre sopra le righe, in modo “circense”, sempre ultra-esteriore, con l’ambiente degli immigrati italiani nel porto di Brooklyn quasi azzerato a favore di passione, tradimento e sangue. La spettacolarizzazione a tutti i costi è uno degli esiti della pandemia: per riportare gli spettatori a teatro tutto appare lecito. 

Ma queste sono mie considerazioni. Il libro a tali propositi tratta le distorsioni procurate dal Decreto ministeriale del luglio 2014 (e successive modificazioni) che ha trasformato molte regole del sistema teatrale, rendendo centrali Teatri nazionali e Tric, puntando sulla necessità bulimica di produrre e limitato la circuitazione, con la conseguenza di colpire quelle zone di sopravvivenza dove ha prosperato dagli anni Sessanta a oggi il teatro più inquieto e fuori dei canoni, quello capace di aprire nuove visioni e contagi imprevedibili.

Il merito dell’introduzione di Sacchettini è quello di disegnare in modo chiaro un paesaggio che le concentrazioni del teatro italiano sembrerebbero sempre di più voler cancellare. Vari artisti hanno dovuto rinunciare, negli ultimi anni, alla propria ragione sociale indipendente e associarsi a imprese più grandi, come notava anche Roberta Ferraresi su queste pagine di recente (La questione della primavera). In altri casi artisti indipendenti, una volta approdati a produrre per i grandi palcoscenici, hanno visto negare alle loro creazioni la circuitazione dopo il periodo di debutto (vedi gli spettacoli di Roberto Latini per il Piccolo Teatro, Mangiafoco da Collodi e Il teatro comico, da Goldoni). 

I festival, luoghi del nuovo, dell’esperimento, si sono moltiplicati, diventando spesso piccoli o piccolissimi, seguendo le voglie di visibilità di politici che spesso collegano, in modo incongruo, la cultura con il turismo. I gruppi, vecchi e nuovi, uno dei portati del teatro degli anni che vanno dal secondo Novecento a oggi, piccole controsocietà, microsocietà non omologate, si vanno disperdendo e frammentando nell’individualismo di un teatro sempre più dei selfie, narcisista, autocompiaciuto, come nota anche Lorenzo Donati nell’ultimo bel numero della “Falena” (2/2022), all’interno di un dossier sulle storture del sistema teatrale intitolato Al buio, dove tutti questi temi vengono trattati.

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Motus, Twin Rooms.

Sacchettini, da storico, pone limiti cronologici. Segna la fine della prima fase del Nuovo teatro intorno al 2000, quando, non solo la società che segue l’illusione di nuovo ordine dopo la caduta del muro di Berlino si scopre in preda al terrore, alla minaccia del diverso, ma quando scompaiono molti protagonisti della prima neoavanguardia italiana, Leo de Berardinis, Carmelo Bene, e altre figure importanti per le scene di fine secolo, Grotowski, Gassman, Strehler. Maturano le esperienze di neo-neoavanguardia avviatesi negli anni Novanta, i “Teatri 90”, mentre nuove voci, non incasellabili in una sola definizione, si affacciano, in un “politeismo” che rivela la voglia di sperimentare, di ridisegnare i confini dell’arte, di aprirli. La parte del libro dedicata alle opere, per esempio, si apre con Solo Goldberg Improvisation di Virgilio Sieni, uno spettacolo che ridefinisce la danza trasformandola in lingua viva, densa di richiami figurativi, di disarticolazioni, di ansimi e affaticamenti intrecciati alla musica che trasportano l’ideale della levigata perfezione estetica in un continente gestuale da cui emerge tutta la fragilità e la potenza dell’essere umano. E continua così, in cerca di eresie, come quella di Punzo e della sua creazione di bellezza tra le sbarre del carcere.

I festival sono, come era stato alla fine del secolo precedente, motore del cambiamento per poi anche quelli esplodere in mille esperienze, staccandosi, in alcuni casi, dal teatro contemporaneo per scegliere la via della performance, dell’evenemenzialità, del lacerto di realtà o dell’operazione artistica che si afferma nel qui e ora assoluto, come gioco, come procedimento, rinunciando a tentativi di articolazione, di critica, di profondità, di rilanci più complessi. Differente, secondo Sacchettini, era il modo di procedere dei gruppi “Teatri 90”: pur prediligendo un teatro influenzato dalle arti visive, spesso non narrativo, creavano “film in carne e ossa”, raccontavano le ferite e le fessurazioni della realtà e dell’individuo mescolando arti diverse in cui tutti i diversi elementi erano organizzati secondo un progetto drammaturgico, anche quando basato sul flusso di immagini.

Il 2005 sembra l’anno dell’emersione di nuovi gruppi e singoli, da Teatro Sotterraneo a Timpano, da Gianfranco Berardi e Gaetano Colella a Babilonia Teatri a Cosmesi a Muta Imago, a un regista asciutto, antispettacolare come Massimiliano Civica eccetera. 

I linguaggi usati sono differenti, ma con un segno di “nuova generazione teatrale”, plurale, più disincantata se volete, vezzeggiata da festival e da critici, dai nuovi critici: sono anche gli anni del rinnovamento della critica. 

Quale lingua artistica parla questa generazione?  Sacchettini nota come le affinità appaiono a volte fragili, per una generazione fragile, mentre sono i confini anagrafici a fornire qualche indicazione: “Questi gruppi rappresentano la prima generazione cresciuta  assieme alle televisioni private, la prima a essere presumibilmente più povera dei propri genitori, la prima a vivere in diretta la rivoluzione digitale, la prima a essere cresciuta dopo la caduta del Muro e perciò la fine della Guerra Fredde, la prima a passare la giovinezza negli anni del terrorismo internazionale, l’ultima generazione a fare esperienza del Novecento”. A tutto questo associa le ideologie che “prevedono una creatività diffusa e democratica e l’illusione che il lavoro culturale sia un orizzonte percorribile da chiunque”. 

A queste nuove voci si risponde con bandi, finanziamenti rivolti in particolare agli under 35, con l’interesse di festival e istituzioni, “meritorie iniziative” che fanno parte però di “un meccanismo più ampio, tipico dell’industria culturale, che ha bisogno di lanciare novità, creare slogan convincenti, attirare pubblico e poi lasciare i gruppi più o meno al loro destino o comunque tenerli dentro un recinto protetto, limitato”.

Un altro tipo di marketing culturale, in poche parole, con l’illusione dei gruppi (riscontrabile mi sembra anche nelle parole dell’autore) del diritto a essere finanziati, sostenuti, protetti sempre per la propria differenza. Ed è duro scoprire che gli spazi non sono sempre dovuti o “gratuiti”, ma piuttosto da conquistarsi, anche rifiutando certi allettamenti. 

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Sotterraneo, Overload.

La storia continua, si fa complessa. Entra la riflessione su cosa sia la realtà, cosa sia il contemporaneo, cosa sia l’impegno, il politico nel teatro, la ricerca di far partecipare gli spettatori, che spesso si risolve in giochini di ruolo che lasciano apparentemente tutti soddisfatti, in un’illusione di creatività diffusa che assomiglia, per me, all’appagamento che si prova quando si superano via via tutti i livelli di un videogioco. Teatro no-fiction, autofiction, teatro che prova a scavare gli orli oscuri della realtà, dell’apparenza, smascherando in modi a volte troppo prevedibili la rappresentazione, introducendo nei casi migliori qualcosa dei grovigli, dei magmi del flusso confuso del reale. Si affacciano ancora nuovi nomi, di artisti che in alcuni casi hanno accumulato notevole esperienza con lunghe gavette, come Deflorian-Tagliarini. 

Nascono d’altra parte spettacoli militanti, politici, impegnati, di attivismo, che sembrano a volte tagliare la realtà a fette e giustificarsi solo per la loro funzione, e non per il loro senso artistico, come ha notato più volte Rossella Menna (per esempio qui). La studiosa e dramaturg osserva, ancora sul numero citato della “Falena”, come il teatro non può essere edificante parte del welfare, adesione a temi progressivi staccata da quelle profondità che danno la forma, il fraseggio, lo stile, l’articolazione complessa e perfino oscura della scrittura e della visione, sfide oltre ogni rassicurante contenutismo e semplificazione.

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Oscar De Summa, L’ultima eredità.

Appaiono nel saggio di Sacchettini la controriforma del Decreto ministeriale 2014, il teatro “a partecipazione”, il bisogno di attirare pubblico, di rinnovare il pubblico con nuove forme come l’audience development. L’autore registra come sempre di più i giovani che vogliono intraprendere  la strada del teatro ricorrano alle scuole accreditate, mentre le generazioni precedenti si erano formate per lo più in modo autonomo, personale, in processi di autopedagogia più liberi, più avventurosi, esplorazioni per la ricerca di una lingua propria e non di capacità di prestazione per un mercato che, bisogna aggiungere, vede spesso lo sbocco più desiderato nella sicurezza economica e di riconoscimento del lavoro nelle fiction televisive.

La pandemia, chiudendo le persone in casa, serrando i teatri, isolando, spingendo a reinventare (come palliativo) il teatro sul web ha contribuito a separare, a frammentare, a consegnarsi alla virtualità, che tenderebbe a sfumare fino a negare la presenza del corpo, della relazione, dell’intelligenza nel rito vivente del teatro.

E poi le riaperture dei teatri, e il riprendere bulimico a produrre, a imbottire i palcoscenici di novità spesso di corto respiro e limitato orizzonte artistico, come se niente fosse avvenuto. Ma qui l’autore, con la sua galoppata, acuta e utile, si ferma, non senza aver riscontrato le ultime tendenze, sul gender, sulle identità sessuali fluide, e un ritorno alla parola e al racconto, allo scavare i testi per penetrarne in profondità tensioni e inquietudini. Qui mi fermo anche io con le mie piccole variazioni sul tema, perfettamente concorde con Sacchettini che la pandemia, più che portare alla luce questioni, le abbia velate. In tutta questa dispersione l’immagine del teatro di domani, o anche solo di oggi, appare al momento costituita di punti staccati, come quelli di certi giochi enigmistici, che attendono di essere uniti per rintracciarne l’immagine e i sensi nascosti. 

Rodolfo Sacchettini, Il teatro dentro la storia. Opere e voci dalle Torri Gemelle alla pandemia, Montemurlo (PO), Anthology Digital Publishing, 2023, pagine 164, euro 15; il volume si può scaricare gratuitamente in forma di e-book a questo indirizzo.

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