Speciale Docucity | ZimmerFrei.Temporary 8th

7 Maggio 2013

Il "temporary 8th" cui fa riferimento il titolo - apparentemente criptico - del film è l'ottavo distretto di Budapest, un quartiere popolare che è stato oggetto di una ampia “ristrutturazione urbana”. Nel 2006, il progetto“Corvin Promenade”, dopo un'ondata di sfratti, ricollocamenti, demolizioni, ha lasciato spazio a nuovi condomini, uffici, aree commerciali. Tuttavia, dell'ambiziosa operazione rimane ben poco. A causa della crisi economica infatti, il progetto ha rallentato il suo percorso nel 2008 e si è definitivamente arrestato nel 2010. L'ottavo distretto rimane pertanto uno spazio urbano costellato di buchi, di aree prive di una precisa destinazione d'uso in cui cortili di vecchie case diroccate si mescolano a orripilanti costruzioni moderne.

 

Gli artisti del gruppo ZimmerFrei (Massimo Carozzi, Anna de Manincor, Anna Rispoli), che da oltre un decennio si dedicano alla ricognizione degli spazi urbani attraverso i più diversi strumenti audiovisivi (videoinstallazioni, performance, film documentari), si sono recati a Budapest nella tarda primavera del 2012. Seguendo le parole di un nutrito coro di “narratori” (artisti hip hop, urbanisti, mediatori culturali, giornalisti) si sono inoltrati fra gli spazi “provvisori” del quartiere, attorno ai quali hanno costruito una sorta di “topografia del vuoto” strutturata in sette capitoli dai titoli evocativi: “Luoghi invisibili”, “Spazi vuoti”, “La città immaginaria”, “Spazio Comune”...

 

 

Un vuoto storico, prima di tutto: la progettata “riqualificazione urbana” è in fondo un maldestro tentativo di cancellare il passato per edificare un presente-futuro nuovo di zecca. Ma la Storia riemerge prepotente, le pareti crivellate dai colpi di fucile dell'insurrezione del 1956 sono tracce indelebili sul corpo della città, autentiche “vie d'accesso al passato”, come osserva uno degli abitanti.

 

E il futuro? Un altro abitante del quartiere, urbanista, si domanda che cosa ne sarà dell'ottavo distretto fra cinquecento anni, se è vero che la struttura dei nuovi edifici può durare secoli, ma i centri commerciali sono progettati “per non durare più di trent'anni”. Una città senza passato produce un futuro “provvisorio” di edifici costruiti a metà, mentre il presente è appannaggio quasi esclusivo dell'industria cinematografica (statunitense magari, in barba all'iper-nazionalismo dell'attuale governo magiaro), che fra le case semi-demolite reinventa una Storia collocata altrove.

 

 

Tuttavia, man mano che la macchina da presa passa in rassegna le fratture all'interno del tessuto urbano, ci si rende conto di quanto queste “faglie” finiscano per essere colmate, e lo spazio reale ceda il passo allo spazio “immaginato”. C'è un rapper poco più che adolescente che sogna di ambientare un film di fantascienza in questi posti, “che sembrano deserti”; c'è un gruppo di intellettuali benestanti che dà vita, un po' velleitariamente, a un orto-giardino comunitario; c'è una fabbrica in disarmo che si trasforma (“temporaneamente”) in un mercato coperto. E c'è anche chi non si limita a  immaginare: “Riesco a sentirmi a casa solo se posso costruirmela, e forse è per questo che ho scelto questo posto”, dice una giovane che insieme ad un gruppo di coetanei si è impegnata, nel corso di alcuni anni, a trasformare un lugubre condominio a cinque piani in un luogo vivibile, sotto lo sguardo (sulle prime diffidente) degli altri condomini, riuscendo a realizzare una autentica riappropriazione dello “spazio comune”.

 

“C'è solo una cosa che chiedo nella vita: la libertà” proclama un senza tetto (“non siamo accattoni”, tiene a precisare, “ma delegati che tengono d'occhio il posto”): la libertà di progettare ed edificare una nuova comunità dalle macerie, con le macerie.

 

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