Speciale Gianni Celati | Camminare con Celati

16 Maggio 2013

Per parlare di Gianni Celati devo cominciare dal camminare. Dentro e fuori le storie, storie che camminano. E camminare e raccontare. Insomma cominciare prima e un po’ lontani dalla scrittura, in una visione del mondo in movimento che precede, per chi guarda il mondo muovendosi, qualunque storia. Ci vediamo adesso forse una volta l’anno qui in Inghilterra, e neppure tutti gli anni. Ci mettiamo a camminare lungo il Regent’s Canal, verso est, dove Londra diventa un immenso svincolo stradale tra capannoni industriali, chiuse dismesse, vegetazioni acquatiche, e parliamo di tutto, a ruota libera.

 

 

Io so bene quali sono le mie difficoltà con Gianni: vorrei riassumere la mia vita, i miei progressi ma anche  ammettere che non c’è mai nessun progresso, che sono lo stesso di quando ero un suo studente. Questa è una traccia del periodo in cui Gianni era il mio professore, ma sarebbe forse più giusto dire maestro.

 

All’idea di scrivere e fare della letteratura un mestiere sono arrivato al Dams attraverso Gianni e, come chiunque di fronte a un mondo sconosciuto, ho cercato di capire attraverso lui in quale modo nel futuro avrei potuto vivere. Vivere di cosa? Dello scrivere? Ma veramente già allora era molto di più, perché Gianni ha sempre presentato la faccenda in modo apertissimo e per nulla consolatorio. C’è sempre stato solo il mondo aperto, il cercare di conoscere le cose e poi, semmai, lo scrivere. Delle consolazioni che vengono all’esistenza da una posizione professionale se ne è preoccupato poco per sé, e certo non ha mai fatto promesse a nessuno. Nonostante questo, in anni in cui almeno in superficie i nostri orizzonti piccolo-borghesi erano stati travolti dalla contestazione, a Gianni io avevo affidato a un certo punto, intorno ai vent’anni, il ruolo di chi ti giudica, non solo per aver passato il suo esame, ma per quanto avevo amato La banda dei sospiri e per il fatto che sembrava non essere sepolto dalle macerie della propria giovinezza, come capita così spesso ai professori quando guardano gli studenti con un’aria di supponenza e autocompiacimento, quasi fossero ormai passati in un’altra parte della vita, non si sa bene quale altra, e gli studenti vengono chiamati “ragazzi” e sono un po’ il loro materiale. Gianni era invece davvero curioso di tutti, entusiasta di quello che faceva vivere tra noi, che fosse Lewis Carroll o semplicemente il desiderio dell’avventura.

 

  

 

Qualcosa di quel rapporto originario è restato anche nell’amicizia che è seguita. Non è una bella traccia, direi che è un mio complesso, un prezzo che si paga. Sarà mai capace di guardarti un ex studente senza voler essere promosso? Ma questo non riguarda solo i rapporti tra insegnanti e insegnati. In tutte le amicizie ci si mette a vicenda in questa posizione. Vogliamo essere capiti, accettati, promossi. Perché siamo bravi, o almeno abbiamo lavorato, abbiamo fatto quello che dovevamo per passare, o magari non lo abbiamo fatto, siamo stati insufficienti, colpevoli; lo sappiamo bene, la nostra vita non va bene, ma vorremmo essere promossi lo stesso. Povero Gianni, e poveri noi, come si fa ad accettare una posizione del genere?

 

Gianni non accetta questo ruolo. Ti tratta un po’ come diceva Elsa Morante: se pensi che andrai in paradiso, andrai in paradiso, ma se hai qualche dubbio, allora c’è qualche dubbio. Non ti toglie colpa e complessi, se li hai ci sarà qualche ragione, saranno probabilmente delle buone ragioni, io ti aspetto oltre il tuo teatro interiore. Quindi camminare. Perché se non sappiamo – e quando mai sappiamo? – che almeno vadano le gambe e la bocca e raccontino non per passare dalla descrizione del mondo a un altro piano superiore, da dove si guardano le cose e si dice: ecco, così stanno le cose! Ma con le cose, nelle cose, senza spingere né resistere, facendosi parte del mondo, o almeno cercando di farlo. La sua passione per la descrizione e la fotografia credo nascano da qui, dal desiderio di umiliare l’intelletto, come raccomandava prima di lui Gian Battista Vico, per ritrovare la nostra umanità.

 

Cosa significa questo per uno che scrive? O più precisamente: cosa significa questo per Gianni che scrive. Perché se così è, perché non scrivere romanzi in cui tutto è azione e cose, consegnare il mondo alle sue forme e dire: questo è quello che si vede, quello che si può dire, del resto non so. Un po’ wittgensteinianamente, dire quello che si può dire semplicemente, e del resto non parlare. Ma i romanzi di Gianni non sono questo, sono una cosa molto particolare.

 

Linguisticamente sono in una tensione continua rispetto al mondo da cui vengono e di cui parlano. Nello sforzo di descrivere, con semplicità, adeguarsi alle forme del mondo, a Gianni scappano sempre fuori piccole osservazioni, costruzioni un po’ strane, a volte lunghe, a volte brevi, che fanno il suo stile. Uno stile in cui il disagio è continuamente rivoltato in eleganza, il disagio contro cui si batte costantemente in un suo teatro mentale dove forse c’è il suo zio sarto, forse l’incontro con persone che ha considerato in qualche modo superiori, e comunque non bisogna fare brutta figura. Alla fine questo disagio sembra aver trovato una sua forma inquieta, a volte magnificamente, come negli ultimi bellissimi racconti appena pubblicati in Cinema naturale,  altre volte secondo me meno, ma siccome di Gianni uno alla fine conosce sia quello che riesce a dire sia quello che non riesce a dire, non è che ci siano davvero libri belli e libri brutti. In ogni libro questo equilibrio si dispone in modo diverso.

 

E il modo migliore per risolvere il problema dell’equilibrio è appunto camminare: mettersi a divorare distanze, come facciamo noi, con una voracità nelle gambe che è la voracità del vedere, del parlare, dello scrivere e del leggere. Non si sa bene se abbiamo smesso di essere studente e professore ma non ne parliamo. Camminiamo, e quello che c’è da dire in un modo o nell’altro nella camminata (e la nostra è anche piuttosto veloce) si dispone. Come se uno avesse una manciata di ossi o di conchiglie tra le mani, che è solo un mucchio di frammenti confuso, poi li getta su un tavolo e quel mucchio prende una forma che si può interpretare. Poi li si riprende in mano e non ha senso ripartire dall’ultima volta in cui li si era lanciati, tanto sappiamo che né la disposizione degli ossi né tanto meno l’interpretazione che avevamo dato hanno davvero senso, quello che conta è la forma che prenderanno nel prossimo lancio che ci accingiamo a fare. A tal proposito si veda la bella introduzione di Jung al libro dei Ching.

 

Così mi piacerebbe fare una piccola storia delle camminate-chiacchierate con Gianni. Senza pretese, perché abbiamo visto in tanti il lancio di quegli ossi e ognuno lo ricorda in modo diverso, o piuttosto che ricordarlo lo ricostruisce da una prospettiva particolare. Vorrei cominciare da Bologna, quando andavamo al cinema e a chiacchierare, e attraverso me credo che Gianni vedesse un po’ le aperture che alla fine degli anni settanta noi portavamo alla sinistra e alla scena letteraria.

 

Sia io che Pier Vittorio Tondelli o Andrea Pazienza o Freak Antoni o Carlo Mazzacurati siamo passati dai suoi corsi. E per me alla fine c’era qualcosa che era più dei corsi, che pure erano sempre belli e vivacissimi, con l’aula piena di gente che veniva ad ascoltarlo anche da fuori dell’università e alla fine si parlava di molte cose importanti; tutto si apriva in un punto in cui la letteratura diventava la migliore disciplina per interpretare la contemporaneità e non qualcosa che dai libri si incamminava in una sua separatezza. Ma più dei corsi, dicevo, erano le camminate notturne, o i viaggi a Milano per preparare la redazione di Alice disambientata.

 

Poi ci sono camminate per un paio di settimane a Venezia, nel ’78, direi. Abitiamo in una casa in campo San Polo, Gianni riscrive Il lunario del paradiso e io Boccalone. E anche lì ci sono varie altre persone che passano in quelle giornate e in quelle case. Luca Fontana, a un certo punto, poi un’amica di Gianni che si chiama Lina, anche Carlo Ginzburg da cui Gianni abita (o scrive) in via Castagnoli a Bologna.

 

Gianni sta divorziando ed è preso tra correnti diverse. Primavera luminosa e dolente per amori che finiscono male, ma con una bella amicizia che ci fa parlare e muovere, e non solo lamentare le infelici circostanze. Ci mettiamo a camminare a un certo punto nella giornata, poi un caffè in campo, due chiacchiere e si scrive di nuovo.

 

Dopo Boccalone, invece, passano anni in cui non ci vediamo, per varie ragioni. O velocemente, la sera, in un ristorante tenuto da due sorelle nella campagna bolognese. Torno invece a trovarlo a Falaise, in Francia, da Londra, insieme a Jenny. Anche lì, dopo una traversata notturna in nave in cui non chiudiamo occhio, ci mettiamo subito a camminare e credo che camminiamo dalle 9 del mattino fino a che fa buio.

 

Anche Jenny è una grande camminatrice. Poi mi ricordo un tasso che attraversa la strada davanti alla macchina quando andiamo a cena, e lì vedo qualcosa di Gianni e la campagna (che lui ha più in comune con Jenny che con me) che mi commuove. Una specie di nostalgia che viene dall’infanzia che lui ha trascorso nel bellunese e che però, per chi è cresciuto in campagna, non passa veramente mai. Come se gli animali, le piante, la natura non smettessero mai di chiamare e una parte del sé che è più profonda del discorso ogni tanto venisse ripresa là dentro. E ci si dice solo un «L’hai visto?» o magari neppure quello, con questa strana forma di nostalgia che lega gli uni agli altri e a quel profondo che è là dentro, nel bosco, e in noi si fa la tana, si cerca da mangiare, vive.

 

Lo capisco (anzi direi li capisco, perché in questo lui e Jenny sono molto simili), ma io non sono davvero così. La mia infanzia l’ho passata nella periferia di Roma, dove al massimo c’era qualche gatto sfortunato e randagio; eravamo presi da subito nelle istituzioni, la scuola, i movimenti coatti che si hanno dove non ci sono spazi aperti e non si fa altro che guardare che non arrivino macchine per attraversare la strada.

 

Gli uccelli nel cielo o gli animali notturni non sono un mondo che ho perduto, ma un mondo che non ho mai avuto. Ma questo l’ho poi ritrovato sempre di più nei libri di Gianni. Soprattutto nei bellissimi paesaggi che si intravedono in quelli di viaggio, in Verso la foce e Avventure in Africa, ma anche in Condizioni di luce sulla via Emilia, e nelle cose importanti che ha fatto con Luigi Ghirri. Paesaggi che non sono solo ambientazioni di una storia, ma un mondo davvero guardato, con un rammarico per le violenze fatte alla natura, per ciò che va perduto, con una protesta contro la stupidità e la violenza, le costruzioni imbecilli, le villette geometrili, gli allevamenti di maiali. Ci si potrebbe anche arrabbiare con le classi sociali, il capitalismo e compagnia cantando, ma a Gianni in fondo la gente piace, gli piace caratterizzare economicamente i personaggi, dar loro una professione, dire quanti soldi ha, avere un infermiere, un medico, uno che dipinge insegne stradali. Gli piace la gente, e per quanto protesti contro l’epoca, le persone poi le racconta e così le salva. Anche quelli che appaiono come coloro che perpetrano quelle stesse violenze, che lui avverte sul paesaggio e la società come se le facessero sul suo corpo. Perché per il discorso che facevo prima, per la natura che è in noi, in fondo le violenze le fanno davvero sul nostro corpo anche se ci si illude, soggettivamente, di potersi occupare d’altro, del proprio denaro, del proprio io, quasi che a certuni fosse consentita una via d’uscita personale che invece non esiste. E qui ci sarebbe un altro capitolo da aprire: le sue fughe e i suoi viaggi, il senso del correre più avanti, del camminare, via da qualcosa e verso qualcosa, che non sono mai un farsi assente ma un suo modo di essere, al contrario, luminosamente presente. Un po’ leopardianamente, o anche alla Italo Calvino, un sottrarsi da un modo di esserci che è cedimento alla volgarità per riaffermare nel ritorno, nel riproporre un nuovo libro, qualcosa che increspa la superficie apparentemente tranquilla (e spesso un po’ terribile) delle cose italiane.

 

Cose semplici, cartoline, piccole descrizioni di paesaggi, scenette comiche che però, intrecciandosi l’una all’altra, fanno emergere un mondo più simpatico e vivibile di quello che a prima vista appariva. Così nei suoi racconti si ha spesso questo doppio movimento: un’espulsione da una normalità mortifera (infermieri, insegnanti, impiegati ecc.) e un ritornare con un destino che è stato riaperto e ha ancora qualcosa da dire per tutti. Non gli piace avere per protagonisti persone particolarmente sensibili, anzi non gli piacciono proprio i protagonisti. Racconta le sue storie intessendo trame nell’ordinarietà, in vite molto comuni, un po’ come fa Carver. Poi li mette di fronte a grandi fatti, perché non è uno che si tira indietro quando c’è da raccontare la morte o l’amore. Ma la morte e l’amore non rendono i suoi personaggi grandi, anzi, ce li fanno sentire dolorosamente piccoli e inadeguati a tutto quello che accade loro. Qui c’è della grandezza. Quello che conta comunque è altro, è la disposizione che prenderanno le conchiglie la prossima volta che si getteranno sul tavolo. Non farsi complimenti, non darsi rappresentazioni di se stessi, non monumentalizzare né il sé né gli altri, ma continuare a camminare e a pensare, finché ci si riesce.

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