Spoleto: Lidi, Rezza-Mastrella, Ostermeier
Lo dice il regista Leonardo Lidi all’incontro successivo al debutto del Gabbiano di Čechov presentato al Festival di Spoleto: il pubblico è il lago davanti al quale avviene la recita del primo atto, sotto la luna. Gli interpreti si rispecchiano nell’acqua degli occhi degli spettatori: cercano di portare il dramma dello scrittore russo vicino a chi li guarda, deponendo ogni enfasi recitativa, spogliando la scena, ridotta a una panca di legno in primo piano, luogo di dialogo e confessione, e a una panca sullo sfondo del teatro nudo come luogo per attendere di entrare in scena e seguire quello che avviene in primo piano. Gli attori scavano nei sentimenti dei personaggi e li restituiscono con grande, diretta umanità.
Il gabbiano è considerato uno dei testi che inaugurano il Novecento, con il successo delle repliche al Teatro dell’Arte di Mosca di Dančenko e Stanislavskij del 1898. È una pièce che si interroga sulle forme dell’arte teatrale, ma è anche un viaggio interiore dentro i rapporti umani, una storia di amori infelici, di tradimenti; porta in scena esseri inermi sacrificati alla vanità e desideri che si infrangono contro la vita.
Sono magnifici questi attori che cercano le forme del teatro possibile dopo la pandemia in un grande classico, da far dialogare con gli spettatori, riportandolo a una dimensione colloquiale che ne esalta le note dolenti, ma anche scavandone la vena comica, di quel comico basato sui lapsus e i ridicoli, smarriti fallimenti, come voleva l’autore per le sue opere. Gli interventi del regista, discretissimi, sembrano dirci in certi momenti che questa storia e forse tutta l’esistenza non sono altro che un ballo che cerca il partner giusto, quello che ti fa volteggiare con maggiore felicità, una danza sul vuoto che presto si interrompe.
Lo spettacolo è una coproduzione del Teatro dell’Umbria, dello Stabile di Torino e di Emilia Romagna Teatro Fondazione. Splendidi sono gli interpreti, a partire da Christian La Rosa che dà al giovane Kostja le irruenze, gli oltranzismi estetici e caratteriali della giovane età, pronta alla delusione e alla depressione quando si vede tradita. Dialoga con lui, all’altezza, Giuliana Vigogna nella parte della giovanissima Nina. Perfetta nel suo sognare un’altra vita da quella asfissiante della campagna e nel perdersi nelle illusioni.
Intorno a loro ci sono altre coppie infelici: Maša, che si adatterà alla vita familiare con un grigio maestro che non ama (sono rispettivamente Ilaria Falini e Giordano Agrusta), il pungente medico Dorn interpretato da Maurizio Cardillo, amante della moglie dell’amministratore (Tino Rossi), parte affidata a un’Angela Malfitano capace anche lei di farci precipitare in quell’atmosfera di orizzonti rinchiusi. Poi c’è la coppia dei “vincenti”. Allo scrittore Trigorin Massimiliano Speziani dà toni percorsi da correnti nevrotiche sotto l’apparenza di realizzato letterato e impenitente seduttore. L’Arkadina, la madre di Kostja e amante di Trigorin, è finemente scolpita da Francesca Mazza, che gioca sulle nevrosi dell’attrice che vuole essere sempre al centro della scena, sulla sua vanità e su una sicumera che prova a tenere insieme il mondo, a fingerlo saldo quando i suoi pilastri si stanno sgretolando. Orietta Notari è Piötr, il fratello della Arkadina, uno che ha abbandonato ogni ambizione di vivere al tedio della campagna.
Lidi mette in luce quanto molti rapporti di questa opera siano debitori all’Amleto di Shakespeare, soprattutto quelli tra madre e figlio. Con semplici, raffinati mezzi, grazie alle luci e alla scena essenzialissima di Nicolas Bovey, trasforma il ritorno finale di Nina nell’apparizione di una specie di fantasma, l’ectoplasma svanito dell’amore di Kostja, lo spettro dei suoi stessi sogni naufragati.
Chi sarà stritolato però da questa sequela di fallimenti sarà l’idealista Kostja, deriso per il suo dramma simbolista sul lago sotto la luna, deluso da Nina, attratta dal successo come attrice nella grande città e dalle promesse fallaci del grande scrittore. Quando alla fine sarà lui, Kostja, a essere diventato famoso, mente Trigorin inizia a accusare segni di crisi, di fronte al naufragio della possibilità di amore, il giovane si sparerà il colpo di pistola definitivo. Senza strepiti e tragedie, in levare, come tutta l’interpretazione, sensibilissima, di questa opera, che ce la rende nuova, vicina, anche se la vediamo per l’ennesima volta.
Secondo debutto teatrale, anche questo molto atteso, è Hybris, produzione della coppia d’arte Antonio Rezza, autore dei testi e attore incontenibile, e Flavia Mastrella, artista visiva e creatrice degli habitat scenici che permettono al cinismo corrosivo e ipercinetico dei personaggi di Rezza di manifestarsi (alle sue opere visive per la compagnia è dedicata una bella mostra a Palazzo Collicola, Euforia carogna, visibile fino al 25 settembre).
In questo spettacolo, realizzato con il Festival di Spoleto e il Teatro di Sardegna, preparato per molti anni, funestato da una vigliacca espulsione dallo spazio dove la compagnia lavorava a Nettuno e poi dalla pandemia, sono presenti molti tra attori e comparse. Una folla circonda il burattino-burattinaio crudele Rezza, lunare come un sadico Pierrot espressionista, spigoloso come un esplosivo pupazzo futurista schizzato verso gli anni Duemila, portatore di un umorismo feroce alla Petrolini, di un fare scenico totale che guarda al teatro della crudeltà di Artaud.
Una porta qui è l’habitat principale: un uscio che Rezza sposta per tutto lo spettacolo, incurante del suo peso di 18 chili. La apre, la chiude, la sbatte, segnalando continuamente che dall’altra parte ci sono altri, che quello è un limite che esclude e che cerca, in altri casi, di far incontrare; che quella porta è un confine sul vuoto. È un limite che ingigantisce le nostre incomunicabilità, perché poi, dall’altra parte, per gli altri che stanno da quell’altra parte, che stanno fuori, noi siamo gli estranei, siamo gli altri, quelli che si trovano oltre il confine.
Quando il limite si varca accadono situazioni grottesche, come quando il protagonista entra nella stretta stanza della madre: non c’è spazio, lui si mette a cavalcioni sulle ginocchia di lei e inizia a muoversi, inarrestabile, come in un coito.
Non ci sono regole, tra il dentro e il fuori, se non dettate dall’aggressività del soggetto, che manovra come pedine, come burattini le altre presenze sceniche. Esilarante è il momento in cui due famiglie si incontrano: la presentazione di una madre all’altra, al padre, al cognato, al fratello del fidanzato eccetera diventa uno slapstick, una sarabanda di strette di mano sempre più veloce. Ci si accorge di essere in ritardo sui ritmi imposti dal burattinaio crudele, si perde il tempo della stretta di mano, si ricomincia e ancora ci si sperde. Da un lato della porta e dall’altro, perché il bello di questo mondo isterico è che c’è reciprocità e che un vuoto (o un pieno) si specchia, identico, nell’altro.
La porta diventa un metal detector di aeroporto che continua a suonare fino a che l’attore non è completamente nudo e svela il gioco, evidente dall’inizio: era lui con la bocca a fare il suono che individuava gli oggetti di metallo. Così è questo spettacolo e il teatro di Rezza e Mastrella: basato sulla complicità tra attore e spettatore, sull’accettazione del patto di finzione, della possibilità di giocare su tutto, di mandare all’aria tutte le regole e le convenzioni di un mondo ipocrita, che impone continui divieti. È un teatro anarchico, distruttivo e perciò arioso, capace di aprire orizzonti mentali, così come quel semplice oggetto scenico, una porta che si apre e si chiude, magari a mitraglia, sterminando, suggerendo all’immaginazione paesaggi, ambienti, relazioni umane.
Lo spettacolo tornerà in stagione in tournée e intorno a Natale al Vascello di Roma, la sala che ha ospitato sempre negli ultimi anni questa coppia straordinaria, Leone d’oro per il teatro della Biennale di Venezia. Torneremo più a fondo su questa opera piena di spigolosità che come in un quadro cubista aprono punti di fuga imprevedibili.
L’ultimo lavoro visto è firmato da un regista che ormai è una star del teatro internazionale, il tedesco Thomas Ostermeier. History of Violence è un lavoro brechtiano, incentrato sullo stupro subito dal protagonista, alter ego dell’autore, il francese Édouard Louis, in una solitaria notte di Natale, dopo aver portato in casa per fare l’amore il proprio carnefice, un arabo. Il fattaccio sarà mostrato solo verso la fine: l’opera è un andirivieni che lo ricostruisce dall’esterno, attraverso la corsa in ospedale per la paura di essere infettato di Aids, la denuncia a una stazione di polizia, il racconto fatto alla sorella, che a sua volta lo riporta al marito, nella cittadina d’origine del Nord della Francia.
L’azione viene ulteriormente distanziata, brechtianamente, attraverso inserti video, che provano a ricreare l’emozione dei sentimenti provati, il senso di solitudine di una notte di Natale disperata, usando stilemi che Ostermeier altre volte ha sperimentato. Si vede una pioggia fine e insistente, un gocciolare sull’asfalto che ricorda quello sulla gabbia di vetro che richiudeva la protagonista in una memorabile Hedda Gabler. Assistiamo a una convulsa accelerazione sottolineata dal suono della batteria che accompagna lo spettacolo, con immagini veloci, azioni fisiche, violenza, come negli intermezzi tra gli atti di Nora, da Casa di Bambola di Ibsen. Vediamo l’ambientazione in un interno borghese abbastanza asettico, pronto a esplodere come in Shopping and Fucking.
Tutta la prima parte dello spettacolo, con quell’andare avanti e indietro nel racconto, risulta meccanica, macchinosa, sovrabbondante, anche se serve al regista a definire un mondo. Il protagonista, intellettuale e figlio della classe lavoratrice, è un omosessuale non accettato dalla famiglia piena di pregiudizi. Lo stupratore, accolto inizialmente con diffidenza, poi con affetto e amore, fino all’amplesso nel letto, è un extracomunitario discriminato. Sembra alla fine che questi due diversi non si possano incontrare realmente se non attraverso la violenza. Questo ci fa intendere uno spettacolo che diventa intenso proprio nel finale di scontro.
Rimane la domanda su cosa abbia scatenato la furia dell’arabo, che reagisce all’accusa di furto, perpetrato ai danni del protagonista mentre questi era sotto la doccia. Édouard lo accusa di avergli sottratto il cellulare, ma l’accusa basta a rimettere in moto fantasmi di distanza sociale e umana, di discriminazione, e la violenza avviene proprio perché non esiste possibilità di intendersi in un mondo basato sulla separazione, sul sospetto, sul rancore, sulla differenza come stigma. Lo spettacolo così si svolge tra parti alla lunga ripetitive, in cui però si pongono le basi per l’esplosione finale, e momenti di forte emozionalità, in una ricerca di ragioni e verità forse impossibili da determinare.
Per questo e per gli altri spettacoli grandissimo è stato il successo, decretato da un pubblico che riempiva i teatri, attento, curioso di farsi trasportare in mondi distanti.
L’ultima immagine, di History of Violence, è di Arno Declair.