Storie d’amore (che durano un po’)

30 Maggio 2013

Eros, Narciso, il Cantico dei cantici, San Bernardo, San Tommaso, l’esteta inquieto Don Giovanni di Molière, Romeo e Giulietta odi et amo amore e morte, Maria Vergine madre non sposata Stabat Mater sposa del Figlio, i trovatori occitani cultori dell’adulterio e della sodomia, la quietista torturata Jeanne Guyon, il sadomaso Baudelaire, il femmineo femminista Stendhal, il perverso Bataille, Freud, E.T.: Julia Kristeva aveva pubblicato il primo nucleo di Histoires d’amour nel 1983: «Ho scritto Storie d’amore in una tappa della mia vita in cui l’amore si ritraeva da me. Quale amore? Il colpo del “Grande Amore”, mito salvifico, passione consolatrice e derisoria illusione, carica umorale ed elettrica, o fulmine del destino. Un amore che aveva fatto il suo tempo».

 

 

Per la seconda edizione di questa sua summa di prospettive amorose, Kristeva ha scritto per Donzelli una prefazione nuova, che ripropone in una prospettiva di esperienza un libro che attraversa centinaia di libri, e di filosofie, e di letterature e di mistiche e di teologie per inseguire dalla prospettiva della stanza silenziosa di una psicanalista freudiana un fermo-immagine delle infinite e mai finite metamorfosi dell’amore. Chi se non i francesi hanno saputo meglio sezionare questo sentimento sul tavolaccio della scrittura? Amore che nega il corpo, lo sublima, come quello di Platone e poi dei neoplatonici e poi dei cristiani. Amore che nega l’altro e si specchia nel proprio bellissimo corpo, come il mito centrale di questo libro, Narciso il demente e  il sembiante, che apre e chiude proponendosi come la chiave di volta della condizione contemporanea dell’amore. Amore scritto da maschi che inseguono il cadavere della madre, non vedendolo o idealizzandolo (i trovatori) o duplicando in due amanti non scelte e accese di gelosia (Stendhal) la propria femmineità, travestita provocatoriamente da essere esibizionista e non-maschile (il dandy di Baudelaire, il punk), o spogliata nell’abisso pornografico del distacco e del disgusto (Bataille, e Sade visto dal Novecento di Bataille).

 

Qualche caso clinico si insinua: sogni orrendi, vite private orrende, padri e madri osceni e morbosi che segnano la sessualità distorta e dolorosa dei figli. Quando Kristeva si mette a leggere i grandi capitoli della letteratura scrive pagine memorabili, con una lingua nitida, felice, emozionante: «Il dandy provocante ed esibizionista sarebbe, insomma, molto vicino a questo raddoppiamento del narcisismo ferito che si manifesta nei sentimenti di solitudine e di vuoto, ove si congela provvisoriamente la pulsione di morte» (stiamo parlando di Baudelaire). Per Kristeva Stendhal è il più attuale: De Beauvoir lo ha già patentato “rispettoso delle donne”, ma Kristeva gli strappa di dosso divise napoleoniche e mutande da abatino, gli toglie rosso e gli cancella nero, e lo lascia nudo e tremante di fronte alle sue Mistress: «Occorre intendere la padrona stendhaliana nel senso forte del termine. Il padrone è lei, e raramente il fallo è stato così regalmente incarnato dalla amante. Che la Dama sia una luna che riflette il potere solare del padre o del marito, l’erotica cortese lo sapeva già, e l’amore folle dei surrealisti ne ha quasi del tutto rivelato il retrofondo omosessuale. L’amante stendhaliano ama tuttavia la donna che non trasmette alcun potere maschile. Egli ama l’autorità che non è che femminile: si direbbe che per Stendhal essa è di essenza femminile, in un universo di uomini fantomatici».

 

Kristeva ha come compilato una enciclopedia delle storie d’amore occidentali. È una summa. Arriva fino a poco fa. Non a oggi. E dopo il 2000 sono ancora romanzi e film francesi a leggere l'amore come ci casca addosso oggi: mai tagliato su misura; mai tranquillo; mai come vorremmo; che non resta se ci piace; che non si toglie di mezzo se massacra.

 

 

Frédéric Beigbeder (classe 1965), critico letterario e televisivo, ha scritto L’amore dura tre anni nel 1997, a 32 anni, e ha fatto la regia della versione cinematografica nel 2011: il suo narratore cita L’uomo che amava le donne di Truffaut, e dalle narcisistiche descrizioni di gambe e andature del protagonista anni Settanta passa alla celebrazione dell’SMS come forma contemporanea della scrittura amorosa: passa sul video l’SMS digitato qualche anno prima che qualsiasi noioso talk show ci tracciasse ogni sera qualsiasi stupido tweet di spettatore falsamente “partecipante”. Beigbeder fa il cronista dell’amore: «All’inizio tutto è bello, perfino voi. Non riuscite a crederci, di essere così innamorati. Per un anno, la vita non è altro che un susseguirsi di mattine ascoltate, persino di pomeriggio quando nevica… Il secondo anno, le cose cominciano a cambiare. Siete diventati teneri. Fate l'amore sempre meno e credete che non sia grave… Il terzo anno, non vi trattenete più dal guardare le ragazze in fiore che illuminano la strada… disgustata, vostra moglie vi lascia». Il pubblicitario parigino malinconico e mondano Marc Marronnier è smarronatissimo, insopportabile, cinico e narcisista, quindi di successo, frettoloso, distratto, autoreferenziale, e come i maschi che hanno scritto per secoli d’amore, vede le donne come fantasmi, spettri della Madre e della Puttana, vede Mogli e Amanti, ma non interloquisce con nessuna persona.

 

 

Philippe Vilain, classe 1969, a 32 anni ha scritto un libro novecentesco: potrebbe averlo scritto Italo Svevo, Hermann Hesse: crudo, niente frivolo, squallido, Non il suo tipo racconta di un altro presuntuoso parigino che va a fare il professore di filosofia in provincia: si annoia, si sente estraneo, si schifa, e a un certo punto decide per noia di farsi scopare da Jennifer Dumont, la parrucchiera che vive con un figlio senza più un uomo in casa. Lei lo ama, è una donna semplice, non prova sentimenti contaminati da intellettualismi. Jennifer «ha la felicità triste», prima lo seduce andando in albergo “vestita come una puttana”, si inginocchia tra le gambe del professorino, e con la sua bocca carnosa lo strappa dalla vanità intellettuale. Jennifer ama François, ma François si vergogna di lei, lei “non è il suo tipo”, è imbarazzato, ma si compiace che lei lo veda così com’è: defilato, incapace di impegnarsi con una donna che lo ama in modo semplice. Poi, mutismo e malinconia riappaiono in Jennifer. Un giorno, non risponde più al telefono. Sparisce con il suo bambino. L’uomo che guarda la donna eccitato e schifato, il Narciso che si guarda e che non vede l’altro se non da voyeur, resta spiazzato dalla soggettività di un agire essenziale e non parlato, non estetico. Jennifer se ne è andata. «Jennifer avrebbe potuto essere felice senza di me» si dice quel cretino di François: «Anch’io avrei potuto esserlo senza di lei… mi resi conto dell’assurdità della nostra relazione».

 

 

Come nella Reflecting Pool di Bill Viola (1979) ci sono le chiare, fresche, invoglianti, scroscianti acque di un audio, ma i corpi svaniscono nelle fronde, sino a che il bel Narciso se ne esce dal suo riflesso nell’acqua e se va come un fauno disinteressato anche al suo bel corpo. Il Narciso si erge all’apoteosi della estraneità. Nessuna empatia, nessuna compassione, nessuna comprensione. E dalle storie d’amore che durano millenni eccoci giunti alle cronache dei non-amori che durano qualche non comunicante stagione.

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