Tre spettacoli a Contemporanea Prato
Basta una sola sera trascorsa a vedere un festival per capire in quali direzioni si muove? Per annusare i suoi confini e i suoi sconfinamenti forse sì, se è una rassegna che si ripropone da anni e se per anni tu l’hai seguita.
Contemporanea a Prato, con la direzione artistica di Edoardo Donatini, cade puntuale agli inizi dell’autunno, portando a volte le prime serate fredde e sempre una gran quantità di spettacoli da vedere, rappresentanti diverse tendenze di quella galassia composita che chiamiamo “contemporaneo”. Fa correre da una parte all’altra, da uno spazio teatrale tradizionale a uno meno usuale e propone sempre seminari di approfondimento (quest’anno si registra una residenza per curatori e curatrici, in dialogo con critici). Se poi ti fermi una sola sera e vuoi vedere tutto, riempie di immagini contrastanti che alla fine fai fatica a organizzare, forse perché sopraffatto dalla stanchezza che induce la molteplicità di proposte concentrate.
In una serata ho visto tre spettacoli, cambiando opinione su alcuni a distanza di tempo, dopo averci ripensato e avere meglio considerato i materiali. Due entrano in un filone molto diffuso nelle creazioni odierne, di variazioni drammaturgiche su testi del passato o su figure date. L’altra è una creazione di danza, fedele al mondo espressivo della coreografa autrice Yasmine Hugonnet, radicata in un minimalismo che potremmo definire incantato e incantante, rastremato, estremo, ma risonante di echi che aprono fughe dell’immaginazione.
Partiamo da una novità assoluta, Confessioni di sei personaggi di Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani, con in scena la stessa Baglioni e Stella Piccioni. Come lascia intuire il titolo è una variazione per due sole attrici sui Sei personaggi in cerca d’autore: a cento anni dal debutto, dicono le note di sala. In realtà l’opera di Pirandello debuttò al teatro Valle di Roma, accolta da grida tipo “Manicomio!”, “Manicomio!”, nel 1921. Lo scarto temporale si spiega con il fatto che il lavoro è stato preparato durante il lockdown e che solo ora riesce ad arrivare a questa anteprima pratese, in attesa di debuttare a Primavera dei Teatri, il festival di Castrovillari. Il taglio drammaturgico sembra risentire delle condizioni del periodo di isolamento in cui è andato crescendo. Il complesso testo è affidato a due sole attrici: taglia la parte del teatro nel teatro e si ambienta davanti a un fondale che fa apparire in trasparenza l’atelier-bordello di Madama Pace come se fosse un quadro metafisico disseminato di oggetti e manichini.
La prima impressione che si ha è di essere tornati alla storia melò che Pirandello aveva raffreddato con la cornice dei personaggi che apparivano per cercare presso una compagnia teatrale la vita che l’autore non aveva dato loro. Le confessioni sono assoli della Madre, del Padre, della Figliastra, del Figlio, interpretatati di volta in volta da una delle attrici, con l’altra che riprende con una telecamera che rimanda particolari dell’ambiente o del corpo, la bocca, una mano... È resa fremente, esistenzialmente dirompente, una vicenda che già Pirandello sentiva come inattuale , provando a distanziarla per trovarne una ragione universale, archetipica, al di là delle coloriture d’ambiente, che oggi appaiono particolarmente fuori moda, inattuali, lontane, come la giovane che si prostituisce dietro la facciata di un atelier di moda e incontra come cliente il primo marito della madre.
Eppure l’empito delle due attrici, che certe volte, parecchie, sfocia nel pathos più bruciante, trova un senso nella spezzatura dei discorsi, nel continuo rigettarsi la palla tra le figure, nel rievocare la storia per frammenti, usando il video, vivendo in un mondo di oggetti fantasmatici, che si percepiscono in ombra dietro il fondale, o che arrivano in primo piano, in colorature di luce, opache o più chiare, da sala autoptica, che sembrano sempre nascondere qualcosa (le luci, discrete e dirompenti insieme, sono del mago Gianni Staropoli).
La frammentazione del testo si rispecchia in quella dei corpi, attraverso le riprese di dettagli, in quella di porzioni di scena, con un tentativo di dare consistenza a personaggi che si perdono nel rancore, nell’inconsistenza, nell’illusione, nell’impossibilità di dare un autore, una verità, ai mille personaggi che ci hanno attraversato e che abbiamo interpretato.
Rimane a questo spettacolo il limite di una variazione su opera nota, difetto di gran parte del nostro teatro, troppo spesso di repertorio, di chiosa, incapace troppe volte di assumersi la responsabilità di affrontare storie nuove. In questo, nonostante la ricerca di una sincerità esistenziale, irrimediabilmente di maniera.
Stesso discorso per l’ultimo spettacolo visto quel giorno, Rattenspiel – storie di ratti. Qui si evoca un geniale artista e intellettuale fiorentino attivo soprattutto negli anni settanta, Andrea Bendini. Con la moglie Fiorenza Mariotti inventò quell’esperienza coinvolgente e perturbante che furono i “Burattini Crudeli”, figurette che interpretavano, in casotti più o meno regolari, non opere per bambini ma grandi classici della letteratura caratterizzati da un nichilismo cinico, disincantato, perfido perché rivelatore. Viene ripreso un ultimo suo testo per pupazzi e attori, Ratto – ein Rattenspiel, che immagina il mondo umano estinto e i ratti diventati dominatori di quello che resta, perché più abituati a muoversi tra gli scarti, tra i rifiuti. L’allestimento di Teatro Elettrodomestico, con la riscrittura di Giulia Zacchini, la scena e le figure di Eleonora Spezi, l’interpretazione di Andrea Macaluso, Giusi Merli e Paola Tintinelli, si dichiara un musical, anzi un Rattenspiel e una musikalisch Comedien.
L’idea di riprendere il mondo espressivo di un artista dimenticato come Bendini è ottima, anche perché sotto le note della commediola distopica l’autore – presente come personaggio in scena – si divertiva a introdurre citazioni colte da sfasare in materiali spesso trash, come il “preferirei di no” del Bartleby di Herman Melville e come Josephine la cantante del popolo dei topi di Kafka, che è all’origine dell’idea, con una riflessione sull’arte come attività autonoma o come intrattenimento.
La realizzazione si concede troppe trascuratezze, troppe derive verso l’informale, il trash, senza ritmo, abbandonando a sé stesso lo spettatore subito dopo averlo inizialmente catturato, non consentendogli quei cortocircuiti intellettuali ed emotivi che si presume si volessero creare.
SevenWinters_YasmineHugonnet_ DSC07837©Anne-Laure Lechat
In un altro mondo siamo con Seven Winters della coreografa svizzera Yasmine Hugonnet. Due donne nude in scena, una di fronte agli spettatori, l’altra di spalle. Prima immobili, ripetono poi simmetricamente lo stesso gesto, per vari minuti. Entrano vari altri danzatori. Sul palco si compongono altri gruppi di due interpreti che riproducono le rispettive posture e movimenti, con varie disposizioni nello spazio, con differenti entrate e uscite, con corpi nudi o vestiti, nudi e vestiti.
I danzatori in certi momenti si accalcano tutti in scena, disponendosi in linee, magari curve, intrecciandosi, concentrandosi in sculture di carne, in murales viventi, in umani affreschi, in tableaux che presto si sciolgono per continuare a disseminare il palco di simmetrie e rispecchiamenti, di similitudini e contrasti, con lentezza tra una figurazione e l’altra, lasciando allo spettatore il tempo di far depositare la visione e anche margini sottili di noia, ma pure di attesa che qualcosa da questo minimale accadere si manifesti ancora. Hugonnet fa finire la performance con alcune figure raddoppiate alle spalle, ridotte quasi a umane marionette agite da umani marionettisti, pronte a rovesciare i ruoli.
Magico, definiva una rivista questo minimalismo che scava le possibilità di relazione, aprendo continuamente una domanda su cosa di meraviglioso può avvenire con poco o niente. Con quel poco o niente che è il nostro corpo, capace nella ripetizione, nell’intreccio, nella compassione, nella relazione, di rivelare all’improvviso apparizioni uniche, inaspettate, trasportanti.
La danza che poco danza, che si pone come scavo del corpo e dello spazio, che ne esplora limiti, possibilità, proiezioni, amplificazioni, chiusure, in poche parole malie, si rivela in questo caso un alfabeto che con poche lettere è capace di aprire la strada verso sintassi infinite, misteriose, tutte da scoprire oltre ogni limite grammaticale.
L’ultima fotografia, di Anne-Laure Lechat, ritrae un momento di Seven Winters.