“Tremita l’aria quando sorge amore”

29 Maggio 2021
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L’ultima volta che ho visto Giuliano Scabia, il 5 maggio scorso, fiaccato dalla malattia che lo avrebbe portato alla morte, gli ho chiesto di leggere il finale della Commedia Olimpica, rappresentata nel 2019 al teatro Olimpico di Vicenza (pubblicata da Laboratorio Olimpico/Atti).

La poesia per Giuliano non era solo scrittura, ma era voce, corpo, immagine, pensiero profondo… È stata l’asse di tutto il suo lavoro artistico, un’interrogazione alle lingue del tempo, una trasposizione del presente nei sentieri dell’immaginazione, fuori dalle strade e dalle autostrade dei generi riconosciuti, in cerca delle profondità della foresta e degli sprazzi di luce delle radure.

 

Aveva appena finito di raccogliere tutta la sua opera poetica, da Padrone & Servo  del 1964 ai suoi ultimi versi, in Canzoniere mio, e aveva ultimato (credo in modo ancora provvisorio, da rimeditare, da risistemare), Chi sia la poesia (leggi su doppiozero), prologo alla raccolta, lettera a un’immaginaria interlocutrice, che sintetizzava però varie persone reali, confessando che non si trattava di un pensiero definitivo: “Mi sono sorte domande, dubbi – e qualche lume. Mi sembra di aver capito che le categorie con cui gran parte della critica di oggi (non solo italiana) lavora sono inadatte o insufficienti per capire cos’è veramente fin dalle origini la poesia – il suo corpo incandescente, furioso, ‘impressionante’”.

 

Foto: Maurizio Conca.


In quel testo parlava di Orfeo e di Dioniso, di funzione civilizzatrice e di estasi e rapimento dei corpi, di Esiodo, di Virgilio, Dante, Petrarca, Foscolo, Manzoni, Nievo e Blake, Lorca, Rimbaud, Majakovskij, che variamente negli anni lo avevano nutrito, ma anche di Marco Cavallo e del Gorilla Quadrumàno, “alla ricerca del ‘selvaggio’ per capire il noi di oggi – seguendo nei boschi possibili (fuori e dentro di noi) il pais che canta, il canta-storie”.

 

Quando l’ho visto quell’ultima volta, gli ho chiesto di leggere il finale della Commedia Olimpica, che si chiude con un canto d’amore. E lui ha letto, spiegando dolcemente: è entrato nelle assonanze, nelle rime, nei ritmi, mentre un falegname lavorava e poi salutava, il telefono squillava, Cristina, la sua sposa e io lo ascoltavamo rapiti. E alla fine ci ha parlato di cosa sia lo “spirito d’Amore”, il dio più potente. Ma tutto questo è da ascoltare, con la sua voce un po’ più flebile del solito, sempre piena della sua gioia di scrutare, incontrare, trasportare, vivere.

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