Venezia-Spoleto, festival d’estate

7 Luglio 2023

Sono ancora attuali i festival? Svolgono ancora la funzione di permettere il confronto con significative esperienze e tendenze del teatro internazionale, di segnalare le emergenze di quello italiano, di scoprire e segnalare nuovi talenti? Negli ultimi anni si sono moltiplicati a dismisura: non c’è località appena appena climatica o dotato di qualche attrattiva architettonica o paesaggistica che non organizzi il suo piccolo o grande festival, teatrale o cinematografico o della letteratura; non c’è assessore che non punti al trinomio spettacolo, intrattenimento, turismo. E intanto il panorama teatrale offre sempre di più lavori prevedibili, omologati, poco stimolanti, prodotti a volte in fretta pur di essere presenti in qualcuna di quelle platee estive e consumati insieme a cibo e ospitalità.

Ho deciso quest’anno, anche per altri impegni, di sfrondare la partecipazione ai festival e ho pensato di frequentare solo due tra gli appuntamenti segnalati come “maggiori”, la Biennale Teatro di Venezia e il Festival dei Due Mondi di Spoleto, ognuno per pochi giorni, quindi con una visione che dichiaro subito assolutamente parziale.

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Swan di Gaetano Palermo, ph. Andrea Avezzù, courtesy La Biennale di Venezia.

Emerald – la Biennale Ricci/Forte

I due direttori Stefano Ricci e Gianni Forte hanno dato un colore a ogni edizione della rassegna internazionale veneziana e dopo Blue e Rot quest’anno è toccato a Emerald. Il titolo spicca a lettere dorate sul corposo catalogo bilingue, The Emerald Book, di quattrocento pagine, con pensieri d’artista, note su spettacoli e su compagnie, scritti sui lavori presentati, immagini, tante immagini. Emerald, verde, oltre che alla città del Mago di Oz – quello che fa vedere le cose come non sono – rimanda alla grande questione dei nostri giorni, quella ambientale, per ricordare quanto col nostro senso di onnipotenza stiamo maltrattando il pianeta. E un filo in questo senso, seppure tenue, pare di scorgerlo tra gli spettacoli visti. Sicuramente in quello a mio parere più forte, Swan, sebbene creato da un giovane di ventiquattro anni, Gaetano Palermo, vincitore del Biennale College Teatro Performance Site-Specific, una delle fucine – i college appunto, rivolti a vari settori – che cercano di individuare artisti per il futuro. 

Siamo nella piazza assolata all’ingresso dei Giardini di Castello lato via Garibaldi (24 giugno), assiepati nelle zone d’ombra. Alle campane della chiesa rispondono campane amplificate, suono proveniente da invisibili altoparlanti. A poco a poco ci rendiamo conto che nel piazzale c’è un corpo, un cadavere: un piccione morto. Entra una giovane pattinatrice a rotelle che ascolta musica in cuffia, leggera come un cigno. Volteggia, attraversando tutto lo spazio, sorprendendo i passanti casuali. Con il volto plastificato, bambola di silicone, si fa trascinare dal suo stesso movimento, autrice delle spinte muscolari e oggetto di quel suo stesso vorticare. Dopo varie evoluzioni al limite dell’acrobatico cade, con fragore di botto amplificato. Ripeterà la caduta alcune volte, sottolineata da fragori amplificati, fino a quando non ci rendiamo conto che il suono è fuori sincrono rispetto al capitombolo. Continua, incurante, a volteggiare, evitando il piccione morto, guardandolo, avvicinandosi. A poco a poco i colpi si infittiscono e capiamo, lentamente, che stanno sparando al nostro cigno, che cade, schiva, accelera, rallenta, perde sangue dalle gambe, si slancia ancora, fino a soccombere. La drammaturgia è semplice, ma efficacissima la resa tra volontà e destino, libertà e minaccia, grazie alla sprezzatura felice e poi sempre più ansiosa di Rita Di Leo, grazie all’apparato di suoni e a quel piccolo oggetto inanimato, finto evidentemente, che ci mette davanti a uno specchio. L’ispirazione iniziale è la famosa Morte del cigno di Michel Fokine per Anna Pavlova, ma il risultato è un’originale tessitura di teatro, sport, prestazione, danza, azione di strada capace di disorientare, coinvolgere e perciò far pensare. E commuovere, anche, sotto il sole bruciante.

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Anima, di Noémie Goudal e Maëlle Poesy, ph. Andrea Avezzù, courtesy La Biennale di Venezia.

Di forte suggestione è anche per tre quarti il francese Anima, visto all’aperto nel parco di Mestre, concepito dall’artista visiva Noémie Goudal e dalla regista e autrice Maëlle Poesy, con una performance di Mathilde Von Volsem e la musica ripetitiva e incisiva di Chloé Thévenin. Tre schermi mostrano metamorfosi ambientali, in un processo all’indietro nelle ere che trasformano un paesaggio tropicale in rocce, insenature, deserti, pietre scavate da acque: anima del nostro presente, appunto. Si va indietro, con fascino fantasmagorico, nelle epoche del mondo, fino al trionfo di quell’elemento nutriente, che dalla roccia crea la vita, per ritornare alla durezza, alla purezza senza superfetazioni della pietra, all’arsura desertica del futuro incombente. Qualcosa arde, con fumi, brandelli del video cadono come oggetti reali in combustione, i piani si confondono, fino a che il pannello video centrale non scompare. Si vede ora una struttura di sottili resistenti tubi, che inquadra un edificio squadrato sul fondo. A quei sostegni si appenderà in un aereo cammino sospeso la performer, rimandandoci a un’altra origine, quella della nostra specie dalle scimmie, in un finale eccessivamente illustrativo, esasperante per l’inutile lunghezza, che rompe l’incanto sinistro creato dalle immagini.

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La plaza, El Conde de Torrefiel, ph. Andrea Avezzù, courtesy La Biennale di Venezia.

Molto meno interessante è La plaza di El Conde de Torrefiel, compagnia guidata dalla svizzera Tanya Beleyer e dal catalano Pablo Gisbert. Il testo qui è affidato esclusivamente a proiezioni. Si inizia con l’immagine fortissima di una scena ingombra di fiori e lumini, lasciata per un lungo tempo senza azione, mossa solo da un picchiettare sonoro. L’intento viene presto dichiarato: il teatro del futuro consisterà in rappresentazioni del nulla. Ed ecco che assistiamo a scene di normale anonimato, donne che chiacchierano, donne immigrate, donne col velo, donne col carrello della spesa, capannelli, con personaggi dai volti cancellati come fossero manichini. Di fronte a questo scorrere piatto il testo evoca le grandi questioni della nostra società, la globalizzazione, il dominio dell’economia, il turismo, la pubblicità, la xenofobia eccetera, per arrivare a prevedibili considerazioni “morali” e “politiche”: siamo governati dai morti. Arriva una barella con un corpo disteso sotto un lenzuolo. Viene scoperto. È una donna, ma si dice: quel morto sei tu, c’è la stessa cellula che si trova in tutti i disperati. Se questo finale, nel mettere lo spettatore al centro della cancellazione delle personalità da globalizzazione e nel farne l’occhio che tutte quelle visioni ha generato, conserva un qualche interesse di sorpresa, come d’altronde l’immagine inziale, tutta la lunga parte centrale va dal già visto al banale, troppo banale ritratto speculare della nostra alienazione.

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Milk, Bashar Murkus e Khashabi Ensemble, ph. Andrea Avezzù, courtesy La Biennale di Venezia.

Non molto meglio è lo spettacolo palestinese Milk, una performance visiva di Bashar Murkus e Khashabi Ensemble. Tutto lo spettacolo sta nel titolo: madri-figli-nutrimento-morte-pietà-rabbia-nutrimento. Senza parole, con musiche che mirano a suscitare forti, facili reazioni emotive, gioca a ricordarci la situazione drammatica di lutti che vive la Palestina. Ma lo fa insistendo, fino all’esasperazione, su poche immagini, variate all’infinito, con costruzione di muri, di rovine, di barricate, con strazio di corpi, ridotti a manichini, di manichini trasformati in corpi, con pietà di madri, dove si torna sempre alle stese situazioni, con un’insopportabile moltiplicazione dei finali. È un esempio di teatro tautologico, che per voler essere militante non fa capire nulla a chi già non sa e perde in forza di incisività espressiva.

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Zio Vanja, regia di Leonardo Lidi, ph. Andrea Veroni.

Vaudeville a Spoleto

Il primo impatto di Zio Vanja (25 giugno) è formidabile: la scena è chiusa da un muro di legno chiaro formato da assi di betulla, con una stretta panca davanti (scena di Nicolas Bovey). Niente interni, come niente effetti musicali e neppure partiture sonore in sottotesto come quella celebre di Stanislavkij: solo un esterno ruvido che nasconde il retroscena e brevi tratti sonori curati da Franco Visioli nell’asciuttissima, acuminata messinscena di Leonardo Lidi. È la seconda tappa di un Progetto Čechov prodotto da Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro Stabile di Torino e Festival dei Due Mondi, dopo un Gabbiano con cast in buona parte simile. Si completerà l’anno prossimo in trilogia, saltando Tre Sorelle e cimentandosi con Il giardino dei ciliegi.

Utilizzando la bella traduzione di Fausto Malcovati, che cura anche le note di sala, il regista crea un altro spettacolo essenziale, veloce, frontale, che da subito dà l’idea di noia, di spossatezza, di fallimento che si respira nella tenuta di campagna di Vanja, tra piccoli impegni, futili divertimenti, passioni effimere, pulsioni erotiche abortite, che rendono ancora più devastante il male di vivere. 

Lui, zio Vanja è steso per terra un po’ inebetito, mentre dialogano Astrov e risponde più o meno a monosillabi la njanja (governante? balia?) Marina, camicia giallo sparato lui, vestaglia, ciabatte, bigodini e cicca in bocca lei (costumi, azzeccatissimi, di Aurora Diamanti). I personaggi, così frontali, così centrati principalmente su sé stessi, sembrano monadi, con abiti anni sessanta, dell’era di Breznev potrebbe essere, ma anche di un’Italia minore, impiegatizia o rurale, toccata solo marginalmente dal boom, con vistose parrucche cotonate le donne. 

La tirata sugli alberi di Astrov, da piantare per ripopolare una terra che si sta impoverendo del verde, divorata dalle attività umane, un verde nuovo di cui godranno i posteri (e il muro che chiude la scena evoca gli alberi tagliati), le risate che fanno presto a diventare scoppi dilaganti o trattenuti di pianto, le battute, la velocità di certi passaggi e i silenzi di altri, le aspirazioni, gli ideali caduti sono dagli attori e da Lidi mescolati con rara, chirurgica ironia e maestria, in un dramma paradossalmente leggero delle vite sprecate, fallite, delle rinunce troppo spesso accettate, dell’esistenza che travolge anche chi, come il professore ormai in pensione marito della sorella defunta di Vanja, sembrava ricoprire un ruolo importante nella vita, o chi non aveva troppe aspettative. Tutto è tenuto in superficie, per non spalancare il fondo del dolore, mascherato sotto quegli abiti ridicoli, sotto le vistose parrucche.

L’intrusa, la giovane seconda moglie del professor Serebrjakov, Elena, con una parrucca bionda cotonata che in qualche passaggio la fa assomigliare a Monica Vitti in Deserto rosso (più bionda, più bionda e più cotonata), scatena la residua voglia di vivere di quel mondo esausto: Vanja e Astrov si dichiarano innamorati di lei e nel diverso rifiuto che li coglierà sentiranno di avere esaurito perfino l’ultima possibilità. Da àncora a tutto questo, da confidente e soccorritrice fa una sorridente Sonja lentigginosa con una fluente parrucca pel di carota ad ombrello, saggia, segretamente innamorata di Astrov, con poche speranze perché sa che il destino, oltre a confinarla in quella landa di noia e fatiche, tra quegli altri esseri immaturi, l’ha resa brutta. 

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Zio Vanja, regia di Leonardo Lidi, ph. Andrea Veroni, courtesy Festival dei Due Mondi di Spoleto.

Lidi cambia illuminazione in ognuno di quelli che erano gli atti di Čechov (qui lo spettacolo ha un respiro unico, della durata di un’ora e cinquanta): dà calore alle scene di giorno e tonalità fredde a quelle notturne, nei momenti in cui si va scavare nel fondo delle persone, delle maschere che le anime erigono come muri. Si ride, a denti stretti, grazie al tono leggero da vaudeville sul precipizio impresso dal regista, che vira ancor di più il ridicolo del testo su un tono apparentemente leggero (Astrov è un seduttore di periferia, per esempio, starebbe bene in una località minore della riviera romagnola invece che nelle plaghe russe, o forse nei Vitelloni di Fellini). Le voci in certi momenti nodali provengono da dietro il muro di legno, con i personaggi coperti: là avvengono gli spari o finti spari di Vanja contro il professore, quando questi enuncia il proposito di vendere la tenuta. 

Cosa rimane alla fine, quando la coppia cittadina, Elena e Serebrjakov, parte e la campagna continua a rimanere la fossa che è sempre stata? C’è Vanja, immobile, e non è più l’attore di prima, ma uno molto più anziano, suo doppio, che era misteriosamente apparso in altri momenti. E Sonia, nel suo sconsolato monologo finale, un Adagio lo definisce, opportunamente Malcovati: “Noi vivremo, zio Vanja. Vivremo una lunga, lunga sequela di giorni e di interminabili sere: affronteremo pazientemente le prove che il destino ci manderà, adesso e in vecchiaia, senza conoscere riposo…”. Dobbiamo continuare a vivere… dobbiamo lavorare instancabilmente… finché Dio avrà pietà e allora “Riposeremo! Riposeremo!”: è un canto alla rassegnazione, pronunciato con un sorriso tirato sulle labbra, sotto la rossa parrucca, interrotto, nel bel mezzo, da un violento colpo di rabbia contro il muro di fondo. Bellissimo

Spiccano nel bel cast la delicata Sonia di Giuliana Vigogna e l’Astrov gigionesco di Mario Pirello. Ma tutti gli attori offrono prove di incisiva finezza: Massimiliano Speziani come un Vanja travolto e assente; Ilaria Fallini, l’affascinate, distante Elena che perde la bionda parrucca in un abbraccio rivelatore di Astrov; Maurizio Cardillo, un Serebrjakov imbalsamato; Francesca Mazza, la njanja che tanto ha visto, ormai più di là che di qua; Angela Malfitano, la madre rinchiusa nei suoi libri e nelle sue ideologie; Domenico Agrusta, un debordante, volutamente goffo Telegin, ospite e parassita perpetuo. Sono tutti ottime maschere, fantastici caratteristi di una desolazione che spinge a risate gonfie di lacrime che non riescono a sgorgare. Tino Rossi è quel Vanja vecchio incombente per tutta l’opera. 

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Sarto per signora, regia di Carlo Cecchi, ph. Andrea Veroni, courtesy Festival dei Due Mondi di Spoleto.

Dal teatro Caio Melisso, sulla bellissima piazza del Duomo, scendo al Teatrino delle 6 intitolato a Luca Ronconi. Qui vengono presentati lavori creati con attori provenienti dell’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio d’Amico”. La prima pièce sembra una scelta anomala, Sarto per signora, testo di successo del re del vaudeville, Georges Feydeau, attivo a cavallo di Ottocento e Novecento, uno dei simboli della Belle Époque. La regia è affidata a un maestro attore che ha in sospetto la regia come ideologia, Carlo Cecchi. Egli appresta per i giovani appena diplomati una partitura frizzante, intervenendo con la mannaia sul testo e tagliando totalmente l’ultimo atto che riporta tutto all’ordine, facendo dei due restanti una “folle giornata” di equivoci, scambi, tradimenti, minacce, ritorsioni, sotterfugi, con grande divertimento degli spettatori, valorizzando i giovani interpreti. Elimina ogni sovrastruttura ideologica, la critica alla Terza Repubblica, a una società arricchita che cerca il divertimento ballando sopra la catastrofe eccetera, e si concentra sui ritmi e l’efficacia della macchina attoriale, benissimo accompagnato dai giovani Anna Bisciari, Lorenzo Ciambrelli, Doriana Costanzo, Marco Fanizzi, Vincenzo Grassi, Ilaria Martinelli, Sofia Panizzi, Marco Selvatico, con i costumi d’epoca di Maria Sabato e l’ausilio alla regia di un altro diplomato dell’Accademia, Danilo Capezzani.

L’ultima fotografia ritrae un momento di Zio Vanja con la regia di Leonardo Lidi, ph. Andrea Veroni, courtesy Festival dei Due Mondi di Spoleto.

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