Vita e morte / Addio Befana
Dodici giorni separano Natale dall’Epifania; costituiscono un ciclo temporale assai delicato, o almeno così era in un passato non troppo remoto. Arnold van Gennep, il grande studioso francese di folclore, autore di I riti di passaggio (Bollati Boringhieri), lo considera un “non tempo”, una sorta di frattura temporale che contiene seri rischi. C’è la festa del Natale, con il suo portato di segni pagani e cristiani, con la nascita di Gesù Bambino, poi la fine dell’anno e l’inizio del nuovo, momento di sospensione temporale e ripartenza di un nuovo ciclo; quindi la festa della Epifania, che contiene un altro bel nucleo di simbologie, tra cui il passaggio della Befana. Durante il “ciclo dei dodici giorni” ci sono in giro per il cielo vari personaggi volanti, i quali, in un modo o nell’altro, alludono al complesso rapporto tra i vivi e i morti. Non a caso proprio in questa frattura temporale – il-già-e-non-ancora dei momenti di passaggio – si riaprono i canali di comunicazione tra i vari mondi. La Chiesa ha collocato in una data precisa, quella del 2 novembre, la celebrazione dei defunti, cercando di anticipare il momento in cui, per via del collasso del vecchio anno e l’arrivo del nuovo, la comunicazione tra viventi e trapassati è più forte.
Come ha mostrato Claude Lévi-Strauss in un suo scritto, Babbo Natale suppliziato, del 1952, di cui abbiamo già parlato qui, il personaggio che arriva durante la notte di Natale è un dispensatore di doni, e collega tra loro mitologie pagane, Santa Claus, e mitologie cristiane, San Nicola. Molte delle credenze collegate a queste due figure riprendono antichi riti iniziatici, che non mettono solo in luce l’opposizione o contraddizione tra adulti e bambini, molto forte nel mondo pre-cristiano, come in ogni cultura tradizionale, ma anche quello, ben più importante, tra vivi e morti. I doni, ricorda l’antropologo francese, servono ad ammansire le anime dei bambini morti, spesso in forma drammatica, un universo di simbologie e immagini da cui ha tratto più volte ispirazione un narratore come Stephen King, ad esempio It del 1986. Tradizionalmente nel mondo romano si preparavano doni, offerte di cibo, che si ponevano vicino al focolare di casa, per rendere più dolce il passaggio delle anime dei trapassati. Lévi-Strauss nel suo scritto parla del rituale delle kachtina degli indiani Pueblo, che ha affascinato anche altri etnografi. Che non si tratti solo di una tradizione di una popolazione di nativi americani stanziati nel New Mexico o dell’Arizona, basta citare un episodio avvenuto non molti anni fa a Salerno e riportato dai giornali locali e nazionali. Un gruppo di madri e padri chiese di mantenere aperti i cancelli del cimitero di Brignano durante la notte tra il 5 e il 6 gennaio, quella della Epifania, per potere visitare liberamente i loro bambini morti e lasciare sulle loro tombe dei doni.
Questa è la notte in cui vola la Befana, figura ambivalente, strettamente legata al regno dei trapassati. Mentre Babbo Natale, anche a causa della sua brandizzazione da parte della Coca-Cola (si veda il bel libro di Nicola Lagioia, Babbo Natale. Dove si racconta come la Coca-Cola ha plasmato il nostro immaginario e quello di un’allieva di Lévi-Strauss, Martyne Perrot, Etnologia del Natale, Eleuthera), si è trasformato in un vecchietto inoffensivo, gentile, generoso, tollerante, vestito di rosso e bianco, la Befana conserva ancora una sua incoercibile ambivalenza. Il suo aspetto lo dichiara: vecchia, vestita di abiti lisi e rattoppati, con il naso bitorzoluto, i capelli in disordine, a cavallo di una scopa volante, proprio come una strega. Il nome le deriva da una parola greca, Epifania, che diventa Befana o Befania. Si tratta, proprio come il Babbo Natale della tradizione nordica, di un personaggio legato al simbolismo degli alberi, alla foresta e ai riti legati a quel luogo sacro, figura del capodanno agrario. Vecchia e insieme giovane, la Befana si carica di un significato sessuale; la strega è una giovane bellissima nascosta sotto panni di vecchia. Così la strega, che pure reca doni ai piccini (anche il carbone), viene bruciata in forma di emblema sulla piazza centrale in tanti paesi dell’Italia. Il suo fantoccio, issato sulla catasta di legna e fascine, è arso, come accade in Garfagnana, segnando così il vero inizio dell’anno nuovo, dopo il non-tempo che comincia con il Natale. La Befana è una festa molto italiana, come l’altra di Santa Lucia, celebrata non dappertutto e posizionata, come anticipazione dei doni natalizi per i bambini, prima del ciclo dei dodici giorni, una sorta di anteprima (Lucia, la santa che protegge gli occhi, ha che fare con la luce, ma anche con il mal d’occhio, il “malocchio”).
Nella notte del passaggio della Befana sulla scopa, ci ricordano gli studiosi di tradizioni popolari, il mondo appare ricco di prodigi: gli alberi si coprono di frutti, gli animali parlano, le acque dei fiumi e delle fonti si tramutano in oro. Osservando la cenere del focolare da cui è transitata la Vecchia, le ragazze traggono oroscopi sulle loro future nozze, ponendo a questo scopo foglie d'ulivo sulla cenere calda, mentre ragazzi e adulti insieme, uniti dal suo passaggio, vanno per il villaggio cantando il canto della strenna: la così detta Befanata. Il sacco, che la Befana reca sulle spalle, è inoltre un simbolo preciso; è l’emblema del Regno dei Morti. La calza, che si appende tradizionalmente al camino o all’albero, è in piccolo l’analogo del sacco, che la donna volante porta in spalla. Funziona simbolicamente come antro, caverna o passaggio per entrare nel Regno dell’Aldilà. Del resto, il sacco compare in molte fiabe quale oggetto attraverso cui si compiono furti, rapimenti, strumento d’inganno, oltre che di ladrocinio o di nascondimento.
La parola Epifania, nella sua origine greca, indica una apparizione, letteralmente l’“apparenza”; ed è anche la stella che guida i Re Magi, altro simbolo che entra, attraverso la narrazione del Vangelo di Matteo, nella complessa simbologia che si concentra nel “ciclo dei dodici giorni”. In realtà, questa tradizione dei Magi, proveniente dall’Oriente, nasce da una tradizione iranica, e si è fissata in questo modo intorno al VI secolo dopo Cristo, celebrando i tre personaggi, Gaspare, Baldassarre e Mechiorre, cui Michel Tournier, in un bellissimo romanzo, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre (Garzanti), ne ha aggiunto un quarto che è attratto dai segreti della pasticceria. Tutte queste tradizioni hanno un solo scopo, fondamentale nella cultura umana: ribadire che la vita trionfa sempre sulla morte. Nonostante il rischio di collasso e di catastrofe, implicito nel momento del passaggio, reso evidente dal solstizio d’inverno, dal tramontare e risorgere del Sole, tutte queste tradizioni, con il transito di figure mitiche, vogliono ribadire il legame tra il mondo dei vivi e dei morti, placando i trapassati e ponendoli in funzione di antenati che proteggono il gruppo umano, la famiglia, la tribù, la società. Tuttavia oggi il nostro rapporto con questo regno si è molto depotenziato. Non abbiamo più paura di fantasmi e spiriti, come accadeva nel mondo antico e ancora nel medioevo cristiano, come ha raccontato Jacques Le Goff. Non li vediamo più ritornare dall’Aldilà per minacciarci e ghermirci, se non in film di Tim Burton o in quelli con Poltergeist o altre demoniache presenze.
La psicoanalisi, a suo modo, ha provveduto a bonificare il mondo dei sogni, compito che Freud aveva compendiato nel suo “Acheronte movebo”, iscrivendolo in una serie di “malattie nervose”, e sessualizzandolo, là dove invece nella caligine luminosa del sonno e del sogno c’erano apparizioni, premonizioni, indicazioni e consigli distribuiti anche come doni dai trapassati ai vivi, come si legge in tante novelle medievali. La porta che metteva in comunicazione vivi e morti, nonostante l’intervento delle mamme e dei papà di Brignano, resta chiusa. La morte non appartiene più a un altro regno, non è l’inizio dell’altra vita, la vera vita, ma viene oggi definita come assenza, privazione, mancanza. Come ha ricordato nel suo più bel libro Zygmunt Bauman, Il teatro dell’immortalità (il Mulino), la morte è diventata un tabù, attuando quella che il sociologo polacco definisce la “decostruzione della mortalità”, che si accompagna ora alla complementare “decostruzione dell’immortalità”. Si è dissolta in questo modo l’idea stessa dell’immortalità, che dura al di là della scomparsa del corpo fisico, rendendo la vita totalmente schiacciata sul presente. La morte è qualcosa da rimuovere, su cui è stato gettato un interdetto. Il cielo è vuoto, anche se in questo momento dell’anno cerchiamo di animarlo, non solo con aeroplani low cost, che ci conducono in lontane mete, magari esotiche, ma facendo apparire Babbo Natale con il suo carro trainato da renne e la Befana a cavalcioni della sua scopa magica. Li immaginiamo scendere giù per il camino per premiarci e distribuirci doni, magari anche qualche piccola punizione, il carbone, ma sempre in versione dolce.
L’ultima rincarnazione di questo spirito natalizio, che contiene ancora qualcosa di potenzialmente pericoloso, è incarnata dal Grinch del Dr. Seuss, la fiaba con cui il suo autore, Theodor Seuss Geisel, cercò nel 1957 di opporsi alla commercializzazione del Natale, al consumismo dilagante della società americana del tempo, consegnandoci con i suoi versi in rima l’ultima possibile apparizione del mostruoso, tuttavia ammansendolo e senza evocare troppo il mondo dei trapassati. Purtroppo non abbiamo più in volo sulle nostre teste, e neppure nelle nostre fantasie, le figure che ci servivano a mantenere in equilibrio le ragioni della vita e della morte. La conclusione è che non ne abbiamo più bisogno?
Questo pezzo in forma abbreviata è uscito su La Stampa