Alec Soth: cantico per la fotografia
«Ci si può sdraiare per terra e guardare in alto il numero quasi infinito di stelle nel cielo notturno, ma per raccontare le storie di quelle stelle è necessario vederle come costellazioni e ricercare le linee invisibili che le collegano tra loro». Sfogliando l’ultimo libro di Alec Soth, A Pound of Pictures (Mack, 2022, pp.156, € 65,00) ci si imbatte quasi per caso in questa breve ma illuminante citazione di John Berger (tratta da Another Way of Telling).
Nato nel 1969 nel Minnesota, Alec Soth, già a partire dalle sue serie di opere e libri iniziali – come Sleeping by the Mississippi (2004) e Niagara (2006) – ha conquistato riconoscimenti mondiali che lo hanno consacrato come uno tra i più influenti autori contemporanei. Citazione illuminante, quella di Berger, perché questo suo recente libro (che raccoglie lavori realizzati tra il 2018 e il 2021) ha in copertina un lungo elenco pre-titolo di temi e soggetti disparati che Soth ci fa intendere essere state le sue “stelle-guida”.
Ma si tratta di “stelle-guida” che, nel montaggio del libro, lui ha ricomposto come un puzzle (metodo che è un po’ diventato la firma di Soth): appaiono in tal modo visibili i sottili e tortuosi fili che legano questi temi l’uno all’altro, collegati in cicli narrativi non lineari che avanzano e arretrano, deviano e ritornano, quasi seguissero un sistema di associazioni simile all’andamento di un sogno. Il tutto fino a creare un’opera-libro che si dipana e compone come un cantico ellittico e sincopato sul vedere e una riflessione poetica sul mezzo fotografico, inteso quale strumento gioioso nato dal desiderio di “salvare il mondo” fissandolo e cristallizzandolo in uno scatto.
«Se le immagini in questo libro sono qualcosa di diverso da una semplice superfice luccicante, è perché s’interrogano sul processo della loro stessa creazione. Intendono penetrare nella dimensione estatica del mondo e creare una connessione tra ciò che è effimero (la luce e il tempo) e ciò che è fisico (gli occhi e la pellicola). Queste connessioni sovrapposte si spera possano creare costellazioni di significati possibili.
Voglio che questo libro ronzi come un alveare. Ma alla fine ciò che conta di più è il cucchiaino di miele che se ne ricava.» – scrive Soth nella Postfazione del libro. E il “cucchiaino di miele” che attraversa tutto il volume consiste nel rivalutare lo stupore e il piacere di chi fotografa o di chi osserva il mondo e le cose magari per disegnarle dal vero. A guidare entrambi – il fotografo e il disegnatore – è infatti un desiderio di vicinanza, l’entusiasmo di osservare e scoprire qualcosa che vogliono fissare per ricordarlo.
A quanti ripetono il luogo comune che “tutto è ormai stato fotografato”, o a quanti insistono nel dichiarare che ormai ci sono troppe fotografie proliferanti nel mondo e che dunque – quasi si volesse compiere un atto ecologico – ci si dovrebbe impegnare solo a riflettere e a indagare le immagini già esistenti, Soth risponde così: la fotografia nasce da un anelito che non va negato. Per lui, infatti, è l’entusiasmo dell’esperienza del fotografare a spingerlo fuori casa e a girovagare per l’America: perché dunque non fare emergere un simile anelito? Perché non valorizzarlo?
Così, se la prima immagine del libro mostra un ragazzo che, invece di fotografare le tombe in primo piano, se le lascia alle spalle per osservare un più affascinante panorama di casette immerse nel verde, la seconda ci mostra un bel ramo di fiori gialli che si staglia davanti alla tavolozza bianca di un pittore. Fiori gialli, anche se un po’ diversi, destinati a riapparire più avanti, mentre vengono disegnati da un ragazzo che li osserva da un’auto.
In effetti, alle origini del fotografico si trova probabilmente la frustrazione di Henry Fox Talbot, incapace di disegnare bene, tramite uno schizzo en plein air, la magnificenza del paesaggio lacustre del lago di Como: un’insoddisfazione che lo spinse a creare un nuovo metodo grazie al quale le «immagini naturali si imprimessero da sé in modo durevole, e rimanessero fissate sulla carta» (Roberto Signorini, Alle origini del fotografico, Clueb, 2007).
Il libro di Alec Soth, come lui stesso racconta, era nato in origine dal suo desiderio di seguire le orme di due giganti della storia e della cultura degli USA: Abraham Lincoln e il poeta Walt Whitman, per poi imbattersi in altre “stelle-tema”, rinvenute grazie al suo vagare, al suo istinto e alle sue emozioni protese a raccontare la fotografia intesa come un atto creativo, come un bisogno di fissare momenti magici o significativi della vita.
Il suo elenco-titoli parte così da Abe (Abraham Lincoln), Walt (Whitman) ma devia subito con Buddha, a cui aggiunge un profluvio di soggetti in apparenza tra i più disparati e disordinati come: Yellow (paint, petals), Waterfalls, Darkrooms, Discared Shoes, Butteflies, Photo taped on mirrors, Paths (foot, neural), Dust…, fino ad arrivare a ben 30 temi che “ronzano” nel libro trascinando i lettori in una sorta di gioco dell’oca che stimola l’immaginazione. Nel comporre il montaggio, operazione basilare nel suo modo di creare un‘opera-libro, egli accumula e scarta, scatta immagini nuove ma riprende anche sue vecchie opere fino, in questo caso, a infilare nel libro anche varie immagini trovate.
Inoltre accoglie e raccoglie spunti e insegnamenti dalla storia della fotografia, soprattutto americana, citando o prendendo suggestioni da molteplici autori, quali Robert Adams, Wim Wenders, Joel Sternfeld, Stephen Shore, Jeff Wall, Larry Sultan, Nicholas Nixon e altri ancora. Miscela pure, nei suoi progetti, immagini istantanee e altre staged (ovvero messe in scena in parte o del tutto), ritratti, paesaggi, still life, fino a creare un insieme che è solo suo anche se non si è mai impegnato a imporsi con uno stile preciso. D’altra parte lo stesso Wim Wenders ha scritto: «La macchina fotografica è un occhio che può guardare nel contempo dietro e davanti a sé. Davanti scatta una fotografia, dietro traccia una silhouette dell’animo del fotografo» (Una volta, Costrasto, 2005).
Faccio un esempio, a mio avviso significativo, del modo di lavorare di Soth e dell’esito misteriosamente evocativo di molte sue immagini. Dopo un’immagine di Bethlehem, Pennsylvania – sorta di omaggio a Walker Evans e al luogo dove egli scattò una delle sue più celebri immagini nel 1935 – lui ritorna alle cascate del Niagara, esattamente nel punto dove aveva scattato una delle più apprezzate immagine della serie Niagara, ovvero Cascate 26, del 2005. Un punto famoso che, a suo stesso dire, è quello da cui tutti i turisti fotografano le cascate.
Questa volta, però, anziché fotografare solo tale grandioso scenario, troviamo al centro dell’inquadratura una ragazza che, molto concentrata e seria, si fa un selfie davanti alle cascate con attorno, sia a destra che a sinistra gruppetti di turisti che ci danno le spalle e in alcuni casi appaiono un po’ mossi. La figura centrale di questa ragazza funziona come un magnete che attrae il nostro sguardo senza restituircelo, perché guarda al contempo se stessa e alle sue spalle, suggerendo come la fotografia possa contenere una relazione immediata tra noi stessi e il mondo esterno.
Invece della «silhouette dell’animo del fotografo» (di cui scrive Wenders) da intuire dietro lo scatto di ogni grande o non grande fotografo, ora chi scatta ci mette letteralmente la sua faccia e guarda dietro se stesso/se stessa, anziché davanti. Ma, a parte ciò, tale fotografia fa risuonare una sorta di eco che la ricollega volutamente a un’altra immagine scattata in passato da Soth – ovvero La cuisine d’Azzeline Alaïa, Parigi, 2007 – dove una Carla Sozzani, in piedi, vestita di nero e rigorosamente a fuoco, catalizza l’attenzione grazie a un gesto minimo, tra commensali tutti seduti e dai volti poco identificabili perché mossi o di spalle.
Immagine che a sua volta rimanda a un’altra immagine ancora, come in un gioco di scatole cinesi e di corrispondenze, dove riaffiora il passato e la storia stessa della fotografia americana. Tale fotografia ricorda infatti all’autore (e anche a me) «l’immagine pubblicata da Meyerowitz in Cape Light con una ragazza a una festa, dove lei è perfettamente a fuoco e tutto ciò che ha intorno è sfumato dal movimento» (tale foto è Cocktail Party, Wellfleet, 1977) come il nostro autore rivela a Francesco Zanot (Alec Soth con Francesco Zanot, Conversazioni intorno a un tavolo, Contrasto, 2015).
Lui non ha, infatti, paura di attingere al lavoro di altri autori o di rievocarlo: «Io utilizzo il linguaggio della fotografia e di conseguenza anche la sua storia. Per questo le voci degli altri emergono in continuazione. Fa parte del mio processo di crescita, quindi va bene se a volte somiglio un po’ ad altri fotografi, ho comunque una mia voce» – racconta a Zanot. Un rimando ad altri autori che in A Pound of Pictures – libro, proteso a riflettere proprio sul fotografico – diventa in qualche caso una vera e propria rievocazione di alcuni grandi autori: così, a New York, Soth fotografa la camera da letto di Nan Goldin con un orsacchiotto di peluche e un paio di patinate fotografie in bianco e nero di Peter Hujar appese sopra; oppure riprende Sophie Calle mentre trascorre, come d’abitudine, ogni domenica a dormire; o ancora fotografa la camera oscura di Sid Kaplan, grande stampatore delle fotografie di Weegee, W. Eugene Smith, Robert Frank e Allen Ginsberg.
Una voce personale, la sua, che si fa sentire in tutti i suoi lavori, anche là dove lui curiosamente pare – o finge? – non essersene accorto. Nel libro Niagara, a un certo punto decide di inserire quella che lui reputa debba essere un’immagine “cartolina”, simile in tutto a quelle che centinaia di milioni di persone scattano dallo stesso fatidico punto. Proprio lì, dunque lui era voluto ritornare per realizzare quella foto della ragazza che si fa un selfie, di cui dicevamo. «La copertina di qualsiasi guida turistica raffigura essenzialmente questo panorama.
Ciò che trovo paradossale è il fatto che proprio questa sia la fotografia più venduta dell’intera serie» – racconta sempre a Zanot. Per curiosità mi sono quindi impegnata a cercare su internet tali foto-cartolina scattate da milioni di fotografi esattamente dal quel balcone con vista sulle cascate. Possibile – mi chiedevo – che la sua foto sia essenzialmente identica, o quantomeno simile, a quelle scattate da tutti i visitatori? Dopo un’attenta disamina la risposta è che certo, sembra somigliare, ma di fatto no, è diversa, anzi diversissima.
Le centinaia di foto che appaiono su internet sono infatti tutte impegnate a mostrarci l’aspetto grandioso e trionfale dell’acqua delle cascate che scende sollevando un pulviscolo acquoso; il tutto tra luci luminose protese a sottolinearne ancora di più l’aspetto gioioso, basato su un’idea del sublime naturale un po’ pacchiano. Niente di tutto questo accade nell’immagine di Soth, immersa invece in una luce bluastra e declinante, dove la cascata appare come una ferita nel mare oscuro dell’acqua in primo piano.
Si ha la sensazione di trovarsi sull’orlo di un inghiottitoio dove il vortice dell’acqua piomba irruente nelle viscere della terra mentre noi a nostra volta precipitiamo verso le oscurità del nostro inconscio. Una scena al tempo stesso magnifica e inquietante che turba la nostra immaginazione con la sua aura ambigua e metaforica. Ulteriore dimostrazione, questa, di quanto sia stereotipata e vuota l’affermazione “tutto è già stato fotografato, occupiamoci solo delle immagini già esistenti”. L’immagine di Soth dimostra infatti con chiarezza che a contare non è tanto il che cosa si fotografa ma soprattutto il come.
Del resto, tale ambiguità interrogativa attraversa anche tutto il libro A Pound of Pictures, dove ogni immagine, in apparenza casuale, si trova invece lì, con esattezza e pertinenza, in quella precisa pagina del libro e non in un’altra, e che tuttavia, anziché mostrare qualcosa di immediatamente comprensibile, s’impone ogni volta come un punto di domanda allusivo. Così dichiara lo stesso Soth: «ho sempre sostenuto che il parente più prossimo della fotografia sia la poesia, per il modo in cui stimola l’immaginazione e lascia allo spettatore lacune da colmare» (Alec Soth con Francesco Zanot).
La sfida del libro è in fondo quella di intrecciare un suo viaggio negli Stati Uniti con il suo bisogno di testimoniare quanto la fotografia sia un medium basato sul desiderio impossibile di conservare un istante, di possedere e trattenere ciò che si è visto e amato. Così, partito da un progetto che avrebbe dovuto seguire il percorso del treno funebre di Abraham Lincoln da Washington fino a Springfield nell’Illinois, alla fine di quell’idea rimangono solo alcune immagini sparse, come quella di una coppia vicina alla sua tomba e quella di un busto in gesso di Lincoln, legato inaspettatamente al sedile di un’auto.
Per il resto libertà, permettendo alla sua macchina fotografica di essere orientata come da una bussola interiore che l’ha portato a fotografare di qua e di là, ma soprattutto a fare fotografie di mucchi di fotografie, di fotografie riflesse magari nel cruscotto della sua auto, di gente che si fotografa o si sta facendo fotografare, di persone che disegnano dal vivo o che hanno il corpo tatuato con disegni di fiori un po’ magici… Ma in questo contesto, che cosa mai c’entrano le varie fotografie, presenti nel libro, di statue del Buddha ritratte in luoghi inusitati?
C’entrano, eccome! Maestro spirituale per milioni di persone, il Buddha aveva messo al centro della propria visione filosofico-religiosa, proprio l’importanza della consapevolezza e dell’accettazione dell’impermanenza delle cose. Un concetto decisamente antitetico rispetto a quello intrinseco alla fotografia, basato sul desiderio impossibile di fissare il tempo, di conservarlo per sempre. Dunque il nostro autore si aggira tra templi buddhisti e monasteri ponendo ai monaci la seguente domanda: «Non può essere che la fotografia, con il suo desiderio di possedere e fermare il tempo, sia l’opposto di quanto sostiene il buddhismo?». Risposta di un monaco interpellato: «No, no, no. Io faccio sempre fotografie. Mi piacciono!». Insomma viva la fotografia con la sua capacità “desiderante” di andare al di là delle barriere religiose e culturali.