Alessandro Rossetto. Piccola Patria

24 Aprile 2014

Prima si vedono gli uomini come si sono ridotti e poi il luogo dove l’hanno fatto. Così comincia il film, prima una scena molto dura e violenta e poi dal cielo, con una zoomata manzoniana (direbbe Umberto Eco), si scende sul misterioso meteorite caduto in mezzo alla campagna veneta e attorno al quale si svolgono le storie. Proprio simile alla Kaaba della Mecca, la Torre Nera dell’Hotel multistellato Antares appare dall’alto circondata da piscine e splendidi prati pensili disseminati di chaises-longues; la si vede, in una ripresa stupenda, emergere tra distese di campi coltivati e strade trafficate e, man mano che lo sguardo si avvicina, circondata da una grande stalla.

 

Solitaria in un angolo, una mucca in piena attività escrementizia. Poi arrivano di nuovo gli uomini. L’attacco di Piccola Patria è molto efficace, dietro c’è una mano evidentemente salda e lucida. Il regista, Alessandro Rossetto, padovano al suo primo lungometraggio “di finzione” dopo una serie di documentari, si muove con sicurezza ancorché il tema sia quanto mai insidioso, e infatti qualche titubanza ci deve essere stata se lo stesso autore nelle sue note di regia dichiara di essere partito da “una sceneggiatura pronta ad essere distrutta”.

 

 

Il grande oggetto di culto (o di valore, come dicono i semiologi) è l’imponente e lussuoso albergo-centro benessere calato nella campagna, un salto vertiginoso dal primordiale agricolo al settore dei “servizi”, uno dentro all’altro, senza apparente soluzione di continuità, come se nei campi si possa tranquillamente seminare anche la moderna impresa. Le vicende del film si incaricheranno di dimostrare che questo non è avvenuto in modo indolore, né in Veneto né altrove. E qui, diciamolo subito, va sottolineato che questo film non è un ritratto del Veneto odierno più di quanto non lo sia di una qualunque delle regioni italiane a forte sviluppo economico (e lo stesso si può dire per Il capitale umano di Paolo Virzì). Il fatto che Piccola Patria sia girato in un Veneto, non per caso vago e generico, non lo colloca rigidamente in senso geografico: è chiaro che l’intento dell’autore era essenzialmente rivolto a un’indagine “umana” tout-court.

 

Il modo in cui il Veneto viene rappresentato, tuttavia, è quanto mai pregnante anche perché dà voce a ciò che la cronaca recente ha drammaticamente messo in luce (si veda qui il mio articolo dello scorso 17 aprile). Il grande Hotel Antares simboleggia in sé i valori sociali ed economici della nostra epoca, la summa di ogni istanza “positiva” per cui vale la pena vivere, in una parola “i schei”. Luisa e Renata (Maria Roveran e Roberta Da Soller), le due ragazze protagoniste, con un atteggiamento misto di aggressività e paura, di smarrimento e violenza, sperimentano situazioni umanamente sporche in un’atmosfera spesso allucinata. Renata, per una sfida assurda e per soldi, fa assistere un voyeur pagante agli incontri tra l’ignaro Bilal, il ragazzo albanese di Luisa, e Luisa che invece è consapevole della cosa. Il voyeur Rino Menon (Diego Ribon, molto bravo) è buon amico del padre di Luisa, insieme condividono sentimenti razzisti e partecipano alle riunioni degli attivisti indipendentisti. Buffo il comizio di promozione del referendum indipendentista: è un vero comizio dell’attivista Gianluca Busato, il quale, in un buon italiano ma declinato con una pronuncia veneta, come un bravo predicatore-imbonitore americano invita gli astanti a chiudere gli occhi e contare fino a dieci e poi riaprirli per guardare e accorgersi in che mondo si trovano e capire quanto urgente ne sia il cambiamento. I due amici, Menon (il voyeur) e Franco (il padre di Luisa), applaudono. Ma il gioco degli incontri si fa più pericoloso, Renata, la regista, alza la posta perché vuole più “schei” e invia le foto compromettenti alla sorella con cui Menon vive, e il plico riesce a farlo consegnare proprio dall’ingenuo albanese Bilal. Tutto diventa terribilmente intricato, tutti sapranno tutto e una resa dei conti arriverà, ma non proprio nel verso giusto.    

 

 

La regia rispecchia bene l’approccio piuttosto istintivo alle vicende raccontate: è un mondo perduto, smarrito, le ragazze e i giovani in generale paiono spappolati dall’abbandono che subiscono (ma anche infliggono) nella società: vivono, si fa per dire, di un lavoro esilissimo, fanno part-time le camere all’Antares, il tempo libero lo passano vagando con la mente e immaginando un futuro in luoghi lontani (Luisa trascrive in un quadernino parole in cinese), o a scherzare col fuoco dei drammi degli altri prendendosi gioco degli adulti avviliti dalla loro miseria culturale (Franco, in serie difficoltà economiche, confida a Menon addirittura di aver pensato anche al suicidio). Le atmosfere del film sono spesso acide, ho pensato a più riprese durante la proiezione a certe follie alla Trainspotting, gli isterismi razzisti sono degni degli antichi terrori cinematografici di Scene di caccia in bassa Baviera o Un tranquillo weekend di paura. Solo i frammenti di gioia che le due ragazze riescono a liberare nonostante il deserto di sentimenti in cui si muovono hanno la forza di veri riscatti emotivi: la canzoncina in cinese di Luisa lanciata polemicamente contro il padre, l’immersione nel sole delle due amiche tra le piante nei campi, anche le belle parole di Bilal (Vladimir Doda) per Luisa nonostante il male che gli ha fatto, ma poco più.

 

Il Nordest di Rossetto è crudo, freddo, e tuttavia non indifferente. Forse il caldo, bonario e intelligente Carlo Mazzacurati (regista di cui sentiremo sempre più la mancanza e il bisogno) ha lasciato delle tracce di fiducia: “la cosa che più mi stava a cuore – diceva un paio di mesi fa presentando il suo ultimo film La sedia della felicità – era tenere insieme il senso di catastrofe, in cui sembra che tutti stiamo cadendo, con l’energia e la voglia di riscatto che nonostante tutto si sente nell’aria” (“la Repubblica” Bologna, 12 aprile 2014). Questo di Rossetto è un Veneto spaventoso e svuotato, lontano da quello raccontato con divertito distacco da Mazzacurati, ma lo è poiché Rossetto ha in qualche modo accettato di entrare a far parte di quella realtà, di immergersi e condividerne l’odore di sterco emanato dalla inaugurale vacca solitaria nella stalla. Le riprese sembrano a volte slabbrate, istintuali e poco strutturate (se la sceneggiatura sarebbe stata da buttare, forse anche certe riprese), ma sono esattamente l’incompiutezza dello smarrimento di quelle vite. Franco (il buon Mirko Artuso) è silente, rumina, subisce, è insicuro, odia ma ha paura, quando saprà di sua figlia e l’albanese non capirà nulla.

 

Piccola Patria

 

Si parla in dialetto in questo film (anche Fleischmann aveva usato il dialetto in Scene di caccia, e nonostante ciò la diffusione del film fu ostacolata in bassa Baviera), chi è veneto lo percepirà più a fondo, l’animalità della lingua (il “bestemmiare” dei sottotitoli si dice “tiràr porchi” o “porchidàr”, e che dire delle proverbiali cantilene venete “virate punk” di Roberta?), è un ulteriore fattore di tensione, ed è una tensione (per altro estremamente interessante) che si propone anche tra i residui dialettali frammisti agli italianismi e alle parole di derivazione straniera italianizzate o direttamente prelevate dall’inglese o dal tedesco. E’ un mondo linguistico inedito di un’umanità inedita. E’ un dialetto astratto, un “tiràr porchi twittando”, potremmo dire, che esprime a sua volta la contraddittoria pulsione fra implosioni politiche ed esplosioni economico-esistenziali. Un mondo lontanissimo da quello impersonato dal vecchio (Giulio Brogi) incontrato dalle ragazze che spiega che lì, in quel punto, c’era uno xenotrofio, un posto che ospitava i passanti, “ma voi non sapete cos’è uno xenotrofio…” La tradizione di ospitalità dell’antica terra cattolica si misura con questo piccolissimo accenno con la Chiesa cattolica di oggi rappresentata nel film come mero involucro dove le anime dei peccatori sembrano non entrare mai in conflitto con i loro peccati. Il Veneto (il Nordest) rimane ancora, anche in questo, un immenso straordinario laboratorio.

 

Trovo molto utile e adatto ciò che ha detto recentemente Edgar Reitz (“Il Sole 24 ore”, 13 aprile 2014) presentando l’ultimo Die andere Heimat, film di chiusura che segue la grande trilogia di Heimat. La parola “heimat”, non immediatamente trasferibile nella nostra lingua e banalmente tradotta con “patria”, dice Reitz, “non descrive soltanto il luogo della propria infanzia, ma anche la particolare sensazione che colleghiamo alle nostre origini, la sicurezza e la felicità correlate al senso di identificazione, e nello stesso tempo, la percezione di aver perso tale appartenenza”. Lo metterei in esergo a Piccola Patria.

 

E dunque “Vàrdete intorno, vàrdete intorno” come dice la vecchia canzoncina alpina rielaborata per l’occasione (qui l’epopea degli alpini mostra anch’essa tutta la sua inefficacia) ed è proprio quello che Piccola Patria pare suggerire come istanza fondamentale: guardati intorno.

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