Brassaï: a Parigi con Picasso
Circa a metà della mostra di Brassaï (Palazzo Reale, Milano, fino al 2 giugno) si trova un doppio ritratto di lui con Picasso. È stata scattata dalla moglie Gilberte nel 1966, Picasso ha 85 anni, Brassaï 67. Erano molto amici, Brassaï ha raccontato la loro amicizia in un libro (Conversazioni con Picasso, Allemandi 1995 – peccato non averlo rieditato per l’occasione). Colpisce lo sguardo di entrambi, uguali, convergenti, come fosse uno solo. Gli occhi sono così fissi che sembrano sporgere dalle orbite (Brassaï del resto l’ha evidenziato in ogni suo autoritratto pittorico). È esattamente il loro sguardo: entrambi hanno sempre guardato fuori, la realtà, il mondo, piuttosto che all’interno, dentro sé stessi. Niente intimismo, niente introspezione, né scavo psicologico. Nonostante venga perlopiù assimilato al Surrealismo, è il contrario del dettato surrealista di rovesciare gli occhi. Brassaï e Picasso non sono mai stati surrealisti veramente, benché abbiano frequentato il gruppo e siano stati inclusi nella loro cerchia e nelle loro esposizioni, o lo sono stati in una loro maniera del tutto diversa: vi si sono confrontati, ma non faceva per loro. Lo si vede bene anche se si legge l’Omaggio a Salvador Dalì (Abscondita 2010): Brassaï sembra osservarlo con sguardo del tutto esterno, curioso del personaggio più che della sua arte e delle sue idee.
È famosa la definizione che ne ha dato un altro suo amico di lunga frequentazione, lo scrittore Henry Miller: “uno sguardo vivente”, formula risonante: vivo, vivace, mai fermo, che cerca la vita. La differenza tra i due sguardi in quel doppio ritratto è forse che quello di Picasso è fisso e indagatore, mentre quello di Brassaï è curioso, sembra già volersi spostare su altro.
Ungherese di nascita, il nome è uno pseudonimo derivato dalla città di origine Brassó, ora in Romania, classe 1899, arriva a Parigi nel 1924, dove inizia la sua carriera. Parigi era una fucina di idee diverse, Brassaï si inserisce subito nel variegato ambiente intellettuale cosmopolita. È con l’inizio degli anni ’30 che comincia a caratterizzarsi. Collabora con i surrealisti, in particolare con Dalì per la rivista “Minotaure”: sua è la foto centrale del fotomontaggio Il fenomeno dell’estasi (1933), nonché quelle dei biglietti d’autobus accartocciati che diventano “sculture involontarie” o di certi dettagli della famosa stazione della metropolitana liberty che diventano delle mantidi religiose o altri esseri animati per il delirio daliniano della Bellezza terrificante e commestibile dell’architettura modern style; suoi sono alcuni bellissimi nudi (1931) da Rosalind Krauss messi insieme a quelli coevi di Man Ray all’insegna dell’“informe” batailliano perché rovesciano la forma del corpo femminile facendola diventare fallica.
Per il resto, dicevamo, Brassaï guarda in altre direzioni. La sua serie più famosa è sicuramente quella confluita nel libro Parigi di notte (1933), contemporanea quindi alle sue collaborazioni surrealiste. La questione è importante. La serie è “realista” nel suo impianto: Brassaï ha trovato un soggetto che nessuno aveva mai trattato se non occasionalmente, un soggetto affascinante, dai risvolti romantici-simbolisti – la notte – e insieme sociali-reportagistici; dal surrealismo prende alcuni temi, la visione trasfiguratrice che cerca e vede la notte “vivente”, riempirsi cioè di aspetti e presenze: le statue e le ombre si animano – il perturbante –, la luce diventa a sua volta una “scrittura”, e a volte una materia quasi palpabile (vengono in mente le fotografie notturne del Mulas degli anni ’50, con gli spazzini che paiono spazzare la luce stessa).
Indimenticabili sono le scene dei locali notturni, messi all’insegna dell’altro suo libro famoso, La Parigi segreta degli anni 30, pubblicato nel 1976, in particolare i giochi di specchi nei bistrot che rivelano espressioni completamente diverse dei componenti delle coppie o lati altrimenti invisibili della scena, o quelli nelle stanze degli alberghi che svelano la natura del rapporto tra gli ospiti, il mondo della prostituzione tra degrado e orgoglio, e altro ancora.
Sempre in queste sue perlustrazioni cittadine, nello stesso periodo e anche in seguito, Brassaï individua un altro soggetto fotografico nuovo, quello dei graffiti sui muri della città, un’arte a metà tra il “brut”, il popolare, e l’irruenza iconoclasta. Brassaï li classifica in serie per soggetti che vanno da “Maschere e volti” a “Morte”, “Amore”, “Animali”, fino a “Magia” da un lato e “Linguaggio del muro” dall’altro. Sicuramente è questo soggetto ad avergli poi ispirato l’originalissima serie Trasmutazioni, in cui, disegnando direttamente sul negativo di alcuni nudi femminili, graffiandolo, ha mostrato, insieme al corpo della donna, anche il “corpo”, diciamo così, della fotografia.
C’è molto altro nella sua opera e nella mostra di Palazzo Reale, davvero vasta: più di 200 fotografie – al 90% vintage, un vero record reso possibile dall’Estate Brassaï Succession – oltre a dipinti, disegni, sculture, un grande arazzo. C’è il Brassaï degli inizi, c’è quello della moda e mondanità, c’è quello di altri reportage. L’insieme anzi è un po’ frastornante, sfaccettato ma poco chiaro. Tanto più, ci si permetta una critica, a causa dell’impianto adottato per la mostra. Ora, infatti, capiamo le ragioni del cosiddetto grande pubblico, ma la paura costante di non fare numeri abbastanza grandi, che uno non sia mai abbastanza famoso da valere di essere il centro dell’attenzione che lo riguarda, insomma, è anche strumentale da un lato e rischiosa dall’altro. La mostra incentrata su Parigi piuttosto che sull’autore e costruita surrettiziamente come una sorta di “passeggiata” nella capitale parigina, come è stata esplicitamente presentata alla conferenza stampa, passando dalla Parigi di giorno a quella di notte, a quella segreta, poi delle “illusioni” (con delle virgolette già sospette), dell’eleganza, degli artisti, dell’infanzia, con una coda infine che svela l’imbarazzo nel titolo “Paradossi”, che non si sapeva cioè più come mettere, è un po’ tirato per i capelli, pur rifacendosi almeno in parte a titoli di libri del fotografo.
Va bene, rimedia il catalogo (Silvana Editoriale), come spesso avviene, molto ben illustrato, con un bel saggio di Silvia Paoli che da parte sua definisce “discreto” lo sguardo di Brassaï e ricostruisce perfettamente il contesto, le frequentazioni, il significato storico. La moglie Gilberte e il nipote Philippe Ribeyrolles, curatore dell’esposizione, indulgono piuttosto, com’è giusto, in ricordi personali, utili per avere un ritratto dell’uomo.
Da parte nostra, prima di uscire torniamo indietro alla sala dei ritratti degli artisti. Giustamente intitolata “Sguardi d’artista – Lo sguardo dell’artista”, qui si tematizza appunto esplicitamente lo sguardo e correttamente la compresenza di quello degli artisti ritratti e quello dell’artista fotografo. La scheda in mostra e in catalogo parla di “magia della sincerità e dell’immediatezza della fotografia”, che in fondo coglie bene il lato positivo dello sguardo complessivo di Brassaï, per lo sguardo degli artisti invece parla di “complicità”, che a me non sembra molto corrispondente. È vero che tutti gli artisti ritratti, con una sola eccezione che dirò più avanti, guardano in macchina, come se Brassaï l’abbia chiesto espressamente, ma appunto più come una richiesta che come una complicità. La “magia” è allora come da questa contrainte emergano comunque le espressioni più diverse, quelle di ognuno, in questo senso il loro “sguardo” nel senso della restituzione rivelatrice. Verrebbe da commentarli uno ad uno, di tentare di cogliere il carattere di ciascuno, ma è esercizio che lascio ad ogni visitatore. Non resisto però a non dire della differenza di una veracità popolare come quella di Fernand Léger in contrasto la concentrazione timida di Georges Braque, quella sorta di smarrimento di Joan Mirò fotografato in piccolo, da distante, per inquadrare i ganci di nave appesi alla parete alle sue spalle per la somiglianza con le sue opere, Matisse, serissimo, tra un disegno sulla porta e un paravento in un gioco di quadro nel quadro come nei suoi Atelier. E che dire di Jean Genet in maniche di camicia e mani in tasca, i famosissimi ritratti di Colette e di Henry Miller, la prima come sorpresa con la penna in mano, il secondo appoggiato allo stipite della porta, cappello di traverso che gli strabicizza lo sguardo. E Samuel Beckett, che sfida qualsiasi volontà di comprensione.
Il privilegiato con più foto è Picasso, che mi permette di chiudere tornando sul nostro inizio. Lui no, non guarda in macchina, è lui che comanda, che dirige. Lo vediamo che inscena varie situazioni: come fosse dentro un suo quadro, o come dipingesse un quadro non suo; che tiene una scultura “per il collo”, che sostituisce la propria presenza con un proprio ritratto; infine al centro della strabiliante foto delle prove della sua pièce teatrale Il desiderio preso per la coda (1944), che, come si ricorderà, vide come “attori” un gruppo sorprendente di uomini di cultura come non se ne vedono spesso e che sintetizzano davvero l’epoca – Jacques Lacan, Pierre Reverdy, Simone de Beauvoir, Valentine Hugo, Albert Camus, Jean-Paul Sartre, Michel Leiris, per nominare i più noti – in cui anche lui, Brassaï, si è inserito e di cui in effetti ha fatto parte.
Brassaï. L’occhio di Parigi, a cura di Philippe Ribeyrolles, Palazzo Reale, Milano, fino al 2 giugno.
Catalogo edito da SilvanaEditoriale, curato da Philippe Ribeyrolles, con un testo introduttivo di Silvia Paoli.