Circo, portaci via con te
Devono avermi portato, da bambino al circo. I miei genitori, immagino. Forse era il Circo Orfei. Mi ricordo il grande caos che c’era intorno allo chapiteau, “il tendone”. Il circo comincia sempre fuori, in uno spazio periferico, sterrato, ghiaioso, polveroso; si esce dalla realtà. La botta di luci abbaglianti e le musiche frastornanti, poi: i sensi cominciano ad essere bombardati in modo spiazzante, si è sensorialmente rapiti dal “circle”, dal cirque, che a un bambino pare un gigantesco altrove. Ricordo le gabbie con le tigri, i cavalli con i fiocchi sgargianti. Le sfavillanti giubbe delle maschere e del Direttore, l’altezza vertiginosa della cima. Ricordo emozioni forti, ma non gioia. Improbabile che avessi già visto I clowns di Federico Fellini (1970): quello pseudo-documentario celebrava la morte di un’arte e di un mondo e la parte più bella ancora oggi sono le sequenze iniziali dove il bambino narrante in camicia da notte vede venir su il tendone davanti alla sua finestra; e poi si aggira fuori, in una terra-di-nessuno squallida, sino alla botta del rosso e della luce dentro l’arena; il bimbo poi piange perché ha paura delle tigri e la madre si alza, gli tira un ceffone in faccia e lo trascina via per punizione. Certo non avevo ancora potuto vedere lo sconvolgente Freaks (1932) di Tod Browning, rimesso in circolazione da Enrico Ghezzi su Rai3-Fuori Orario a inizio anni Ottanta, restaurato e rivisto nelle sale pochi anni fa.
Il circo c’era
Il circo così mi ha sempre fatto tristezza, non ci sono mai tornato, non credo di averci mai portato neanche i miei due figli quand’erano piccoli, perché già nati nell’era della televisione, dei videogames, del web: per loro il circo era una cosa pacchiana e priva di ogni interesse. Quando in tv c’era l’annuale “Festival del Circo di Monte-Carlo” cambiavo canale: mi sembrava una roba da rimbambiti monarchi e principesse carampane che coltivavano il loro orticello di perduta Belle Époque. Sono andato una volta a vedere il Cirque du Soleil, sì, e ne ho apprezzato l’eleganza. Ho studiato con curiosità le innumerevoli connessioni tra gli artisti figurativi e il circo nell’Ottocento, e tra il circo e le avanguardie artistiche del Novecento: da Parade di Cocteau e Satie ai dipinti dell’ultimo Léger, al Circus lillipuziano di Alexander Calder. Poi a teatro ho visto le nuove generazioni abbattere la quarta parete, che il circo ha sempre bucato con finti e veri coinvolgimenti nel brivido degli spettatori. E forse a quella entusiastica illusione per una vita e una vitalità alternative alla meschina realtà piccolo-borghese sono arrivato solo ora.
Nella serie tv Transatlantic (Netflix) che Anne Winger, l’autrice di Unorthodox e Deutschland, ha tratto dal romanzo The Flight Portfolio dell’americana Julie Orringer, nel 1940 si radunano a Marsiglia molti dei più grandi artisti e intellettuali ebrei e comunisti d’Europa, nella speranza di un visto per fuggire dai nazisti; nel loro rifugio, una villa di campagna, si festeggia Max Ernst: Walter Benjamin si è appena suicidato in una stazione di polizia in Catalunya, ma ci sono Marc Chagall, Peggy Guggenheim (venuta a dare una mano), André Breton, Hanna Arendt, Victor Serge, Heinrich Mann. Ernst e gli altri artisti si inventano costumi circensi, una ballerina acrobata volteggia tra le antiche stanze, un altro pedala su un monociclo, si declama e si balla… la loro libertà, sospesi fuori dalla realtà, si è inventata un circo per una notte.
Ho capito Ritratto dell’artista da saltimbanco di Jean Starobinski (1970): «Il mondo del circo e della fiera rappresentava, nell’atmosfera plumbea e inquinata di una società in via di industrializzazione, una piccola isola colma di meraviglie dai colori cangianti, un pezzetto ancora intatto della terra d’infanzia, uno spazio entro il quale la spontaneità vitale, l’illusione, i prodigi semplici dell’abilità o della goffaggine fondevano insieme tutte le loro seduzioni offrendole allo spettatore stanco della monotonia dei doveri che la vita seria impone. Sembrava che quegli aspetti della realtà, certo più di molti altri, aspettassero solo di venir fuori fissati in una trascrizione pittorica o poetica. Ma questi motivi (le cui implicazioni storico-sociali appaiono evidenti) non sono i soli. Al piacere dell’occhio si aggiunge un’inclinazione di altro genere, un legame psicologico che fa provare all’artista moderno un certo qual senso di nostalgica connivenza col microcosmo della parata. Nella maggior parte dei casi si deve arrivare a parlare d’una singolare forma di identificazione».
«Nell’atmosfera plumbea e inquinata di una società in via di industrializzazione» scriveva Starobinski. Ma oggi c’è di nuovo una “atmosfera plumbea e inquinata di una società” in via di estinzione dico io.
Un mondo che non c’è
A inizio anno in una mia classe un allievo era spesso assente. Ho messo un po’ a collegare il suo nome al suo faccino. Sulle giustificazioni per le assenze i genitori scrivevano «per motivi di lavoro». Come, un minorenne che sparisce settimane per lavorare? Così mi informai e scoprii che la sua intera famiglia (mamma, papà, due fratelli e una sorellina) viaggiavano sempre insieme in tutta Italia con un circo dove ognuno di loro faceva qualcosa. Un circo, quindi, è piombato nella mia “atmosfera plumbea e inquinata”. «Ditemi quando sarete a Torino! verrò a vederti» gli ho detto. E pochi giorni prima del World Circus Day (16 aprile 2023) il Gravity Circus ha montato il suo chapiteau al Parco della Pellerina. E il giorno di Pasquetta ero in coda davanti alla biglietteria. Molti bambini con uno o due genitori, ma anche coppie di adulti, o adulti soli come me. Riecco lo sterrato polveroso… il traffico lontano… i carrozzoni e le roulette parcheggiate, e il tendone giallo e blu. Che piccolo! Mi sono detto, ma poi ho capito che il circo è grande per un bambino, e piccolo per un grande. Vedo il mio allievo (uno dei pochi educati, vivaci, curiosi e studiosi) che corre come un cavallino felice in mezzo ai carrozzoni. Viene ad accogliermi suo padre, David Demasi.
Adottatemi!
Il prof viene fatto accomodare in prima fila, praticamente in pista. Luci sfavillanti! Musica roboante! Le giubbe delle maschere (qui le ballerine in uno degli enne ruoli che un artista circense interpreta in due ore di spettacolo), i cavi, il senso della altezza, vedere in faccia quasi tutti gli altri spettatori a 360°. Il Master of Ceremony è il padre del mio allievo: è il regista dello show, ha scritto i testi che insistono sulla sfida coraggiosa alla gravità, all’impaccio del corpo. I numeri si succedono freneticamente. Il mago fa sparire dentro macchine di metallo una ballerina dopo l’altra. La mamma del mio allievo si arrotola e srotola a dieci metri dal suolo su tessuti e corde. I tre fratellini con il babbo, biondissimi, acrobatici, corrono su monocicli, saltellano sulla gomma su e giù per gli scalini, si lanciano birilli con il babbo! Il lanciatore di coltelli lancia veri coltelli a una vera signorina dal sorriso smagliante, e ho veri brividi di paura sulla schiena. L’acrobata un po’ agé ci fa temere il peggio, mentre fa salti mortali in cima a un gigantesco bilanciere roteante sotto il tendone. Le moto entrano nel tendone di qua, saltano da un trampolino e atterrano su uno scivolo gommoso di là.
Intervistato da due mie studentesse per il compito di realtà sullo spettacolo visto, David Demasi ha detto: «Lo spettacolo ha un filo conduttore, con una morale finale. Si parla dei limiti che l’uomo può incontrare nella sua vita, ma si dà anche l’idea che questi limiti possano essere in qualche modo superati. Lo spettacolo inizia con la frase che gli unici limiti che l’uomo può incontrare sono il tempo e la sua mente, e finisce con un uomo di settant’anni che fa incredibili esercizi acrobatici. Quindi si può dedurre che il più grande limite dell’uomo, per la maggior parte delle volte, è la propria volontà».
Usciamo, tra due ali di artisti che ci salutano sempre sorridenti, nei loro costumi sgargianti; torniamo allo sterrato… La famiglia messa su da Elena Timpanaro e David Demasi sembra così felice, libera, sana come poche. Ho imparato a detestare la famiglia come il principale cantiere di infelicità, ma forse quello che non funziona è questo imprigionarci in miniappartamenti soffocanti, esclusi a qualsiasi comunità, a qualsiasi interazione con l’imprevedibile, un giorno dopo l’altro a farci carnefici l’uno dell’altro. Un circo sembra un sistema di relazioni aperte, senza tane in cui murarsi da soli davanti a uno smartphone. Mi entusiasma questa (illusione) di libertà, di affetti luminosi e colorati. Tolstoj cominciava Anna Karénina scrivendo che «ogni famiglia infelice è infelice a modo suo» ma questi sei acrobati mi sembrano felici a modo loro, e a fine anno scolastico credo che la mia volontà vorrà superare i miei limiti: chiederò alla Family Dem di adottarmi, e di portarmi in giro con loro.