Davide Ferrario La luna su Torino
Davide Ferrario ricomincia da Torino. A ogni nuovo film del regista bergamasco, ma cittadino torinese da parecchi anni, si ha la sensazione che cambi registro, che torni al punto di partenza per un nuovo slancio. Eppure Ferrario è sempre uguale a se stesso. Possiede due registri poetici: uno serio, meditabondo, riflessivo, quasi “pesante”, e uno “leggero”, agile, veloce, rapido. Con il primo ha fatto film-documentari, che sono riflessioni sul presente e sul passato, film insieme ideologici e post-ideologici, a partire da Lontano da Roma, uno dei primi film dedicati alla Lega in anni non sospetti, o l’ultimo Piazza Garibaldi, sull’identità italiana nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità del Paese, che unito non lo è per niente, ma neppure è diviso. Cerca, scandaglia, esplora.
Con il secondo registro spiazza continuamente, da Guardami e a Tutti giù per terra, sino a questo ultimo La Luna su Torino (produzione Rossofuoco), che ritorna con un altro atteggiamento, rinnovato e più sottile, a Dopo mezzanotte, il suo film di finzione più famoso e di successo. Le due linee poetiche s’incrociano, a chiasmo. Nel punto d’incrocio c’è la poetica di Ferrario, quella dell’inconcluso, del non-finito, del provvisorio, dell’aperto. Ricerca di punti di frattura, che evidenziano la sua stessa identità d’artista, scrittore e regista. Un’inquietudine che è ben incarnata, in modo poeticamente leggero dal terzetto composta da Ugo, Maria e Dario, protagonisti di La luna a Torino. Ugo (Walter Leonardi) è un quarantenne che non ha combinato nulla di serio nella vita. Ricevuta per l’improvvisa scomparsa dei genitori una eredità in denaro e una villa, gira a vuoto intorno a se stesso. Un perfetto immaturo, un Peter Pan. Maria (Manuela Parodi), bella ragazza trentenne, sembra avere, dal canto suo, le idee piuttosto confuse. Non molte idee, molto idealismo invece, molta provvisorietà nella permanenza di una vita così così. Dario (Eugenio Franceschini), il più giovane del triangolo, che non si chiude mai, se non nel finale, è invece un ventenne che studia con poco costrutto Lettere e nel frattempo fa lavoretti, come allo Zoom, il bioparco, tra animali e baby sitter in visita con pargoli. Un semifallito. Meglio: un mai partito. Sono bamboccioni tutti e tre, perché non sembrano in grado di cogliere le possibilità che la vita offre loro. Non si muovono da dove sono. Sono sassi che rotolano, quando la corrente li spinge, se li spinge. Eugenia (Daria Pascal Attolini), la quarta protagonista, è più sgamata, e fa parte a sé.
Nonostante la sua presenza in scena cresca di minuto in minuto nel film, non ne diventa mai il punto di equilibrio. Sono dei piccoli vitelloni, ma senza il paese intorno, perché la scelta di Ferrario è di mettere in scena una commedia degli equivoci, malinconica e leggera, come la Luna che sta sospesa sopra la città e loro con lei. Del resto, è Torino la vera protagonista del film, vista sotto una luce e per scorci inediti, città sorprendente, assai diversa dalla sua tradizione sabauda, militare e grave. Neppure la città magica e del mistero, tutta portici e piazze, bensì città della leggerezza, con architetture aeree e luoghi inattesi. Una città giovane, vista da un occhio giovane, privo di rispetto per la tradizione. Persino la Mole Antonelliana, che svetta nello sfondo del manifesto sotto forma di schizzo, in realtà non è così presente e centrale nel film.
Chi sono i tre-quattro protagonisti, con il loro contorno di adulti-adolescenti? Non dei falliti, perché non ci hanno provato. Non dei maldestri, perché la loro leggerezza gli impedisce di precipitare verso un fondo amaro e disperato. Stanno appesi a un filo, come la Luna nel cielo, come le luci vaporose e nitide dei notturni torinesi, svolazzano sopra ogni cosa come farfalle leggiadre e colorate. Sono belli, delicati, intensi, eppure non esce da loro neppure una parola di verità. Piuttosto è lo zoo con i suoi animali “antichi”, le scimmie e la tartaruga centenaria, a fungere da punto di raccordo tra loro e la città che appare e scompare continuamente. Due figure connettono il film: la giovane acrobata (Giulia Odfori) che s’esibisce nel silenzio degli spazi, correndo lungo il 45esimo parallelo, linea presente e insieme immaginaria, e Gino (Franco Maino), l’anziano ex partigiano. Due equilibristi della vita, che sono stati, almeno per un momento, sopra un filo senza cadere. Ferrario ha parlato della calviniana “leggerezza della pensosità” per definire il suo film, richiamandosi anche a Leopardi, sottratto alla nomea del gobbo malinconico e sfigato delle antologie scolastiche di un tempo. Ma forse la sua è la “pensosità leggera”, che porta questo film, capace di momenti davvero sorprendenti e affabulanti grazie alle immagini, vicino alle riflessioni più gravi e dense dei suoi documentari.
Qui l’ansia del ricercare, il patema di capire, è stato sublimato mediante movimenti di macchina, inquadrature, colori e atmosfere che rendono La luna su Torino l’evidenza di un’idea della vita come slancio, ricerca, tensione verso l’inconsueto. Ferrario non condanna i suoi personaggi, gli vuol bene, li rende leggeri leggeri, perché di questa leggerezza abbiamo bisogno tutti proprio ora che stiamo danzando – mi riferisco al Paese – sul baratro aperto nei trent’anni passati. Nessuna colpa, indica giustamente Ferrario, solo la speranza come Maria d’imbarcarsi su un vecchio pulmino Volkswagen uscito dal passato e diretto a Istanbul, insieme all’acrobata, perché è sempre l’Altrove che ci salva. Anche se vivere costa fatica, ci sarà pure un perché da qualche parte. L’importante è sperarci.