Desiati e gli Spatriati rassicuranti
All’indomani dell’assegnazione del Premio Strega, qualcuno ha parlato di «caso Desiati». Bisognerebbe però intendersi su che cosa sia, letterariamente parlando, un «caso». Come definizione provvisoria, potremmo convenire che si dà un «caso» quando le valutazioni critiche su un’opera platealmente divergono: o fra di loro – ciò che per qualcuno è un capolavoro per altri è un fiasco – o rispetto all’immagine accreditata di uno scrittore – ciò che per qualcuno è positiva novità per altri è regresso, peggioramento, tradimento di una vocazione. Si è verificata per Desiati una di queste due condizioni? Procediamo con ordine.
Le ragioni per cui si potrebbe accendere una discussione a proposito Spatriati (Einaudi, 2022, p. 288) sono due. La prima è che il romanzo è una celebrazione della sessualità fluida (queer, come usa dire); ma oggi come oggi non sono in molti a scandalizzarsene, almeno fra i lettori di romanzi e fra chi discute di cose letterarie. Certo, sarebbe ingenuo dare poi per scontato che la maggioranza della popolazione italiana accetta di buon grado tale messaggio: il cammino per una piena affermazione dei diritti civili è nel nostro Paese ancora lungo, e – a occhio – tuttora in salita.
Da questo punto di vista il dato più interessante sarà il successo di vendite del libro. Se supererà una certa soglia – un riferimento appropriato potrebbe essere costituito dalla fortuna del primo libro di Roberto Saviano, Gomorra (2007) – si potrà dire che Spatriati avrà inciso sulla mentalità del pubblico, e che l’idea della libertà degli «irregolari» (per riprendere un termine che lo stesso autore ha usato in più di un’intervista) si sarà fatta strada: cosa che non potrà che costituire, su un piano culturale generale, un titolo di merito per Desiati.
La seconda ragione è invece ben rappresentata dal commento di Gianluigi Simonetti sul domenicale del «Sole 24 Ore» del 10 luglio, ed è quasi opposta alla prima. Lungi dall’avere una carica provocatoria, Spatriati inscena una trasgressione inoffensiva, «consensuale»: qualcosa che, in sostanza, la mentalità attuale ha già largamente metabolizzato. Arguto è l’accostamento fra l’edizione appena conclusa del Premio Strega e la tendenza del Festival di Sanremo: che non è più una gara canora, quanto uno «psicodramma collettivo in cui il Paese si guarda allo specchio e la musica è solo un pretesto». In entrambi gli eventi, a imporsi è una «studiata miscela di glamour e impegno civile»: che però, per quanto riguarda il versante letterario, andrebbe ora a rimpiazzare «ciò che una volta si chiamava poetica». Ecco dunque i termini del dilemma. Se vogliamo parlare di «caso», Spatriati potrebbe essere o un’opera provocatoria, o una finta provocazione.
Ma in termini di valore letterario, che cosa possiamo dire? In generale, a me sembra che Spatriati sia un buon romanzo. Desiati non è al suo esordio, e si capisce. Ecco un breve elenco degli aspetti più convincenti. Innanzi tutto, il titolo e i titoli dei capitoli, tre in dialetto pugliese, tre in tedesco, corredate da sapide spiegazioni in epigrafe (qui do solo l’accezione più superficiale): Crestiene (cristiano), Spatriètə (spatriato), Malenvirne (malinverno), Ruinenlust (gusto delle rovine), Sehnsucht (nostalgia), Torschlußpanik (timore di restare chiusi fuori). L’ultimo in italiano, Amore: che però in dialetto è sinonimo di «sapore» («Se un frutto non ha amore vuol dire che è insipido, acerbo»).
In secondo luogo, certi aspetti del paesaggio pugliese (la storia è ambientata nella Valle d’Itria, a Martina Franca): «In Puglia puoi conoscere perfettamente quanto sei distante dal mare guardando i fiori di campo, il giallo del tarassaco e dell’acetosella prima del blu degli anemoni a due passi dalla costa». Da notare la serie di riferimenti pascolianamente precisi alla vegetazione locale (i fragni, i sivoni, le zavirne), nonché ai manufatti umani (le pajare, le specchie) e alle unità di misura (il tomolo). In terzo luogo, l’impostazione iniziale del racconto.
Senza riassumere la trama – del resto ormai nota – ricorderò solo che si tratta della storia di un ragazzo, Francesco, figlio di Elisa Fortuna e Vincenzo Veleno, che crescendo in un ambiente tradizionalista e patriarcale fatica a fare i conti con la propria controversa e non univoca sessualità. La figura che accompagna in vario modo la sua formazione è Claudia, una coetanea dai capelli rossi e dal carattere assai diverso dal suo: tanto lui è prudente, introverso e legato alla terra d’origine, tanto lei è spregiudicata, spavalda, imprevedibile, e desiderosa di farsi una vita altrove.
Di fatto, sono le scelte di Claudia a spostare l’azione lontano dalla Puglia, per periodi sempre più lunghi: a Londra, a Milano, e infine a Berlino. Convincente è anche la rappresentazione delle famiglie dei due protagonisti: due coppie infelici e male assortite, ma destinate a incrociarsi, perché la madre di lui e il padre di lei diventano amanti: donde la divisione fra i genitori infedeli (che nonostante tutto riescono ad assaporare momenti di vera felicità) e i genitori traditi (frustrati, rancorosi e incapaci di cambiare).
Una riserva di fondo avanzerei invece sulla strategia compositiva. La narrazione è condotta in prima persona: e finché seguiamo la storia dal punto di vista di Francesco, le cose funzionano. Assai efficace, ad esempio, la scena in cui il protagonista si trova a casa una sera con Elisa e Claudia, che non ignora la relazione fra suo padre e la madre del suo amico; e, imbarazzato dalla inattesa confidenza tra le due donne, va di nascosto in bagno a truccarsi. «La barriera tra opportuno e inopportuno si rivelò per quello che era sempre stata: un’impalpabile striscia di nebbia. Appoggiai il rossetto sul labbro inferiore, a quel bacio di cera tiepida mi arresi completamente. // Mentre le mie labbra si coloravano di rosso e gli occhi si avvolgevano in un alone sbavato di matita nera sentivo un’altra umanità, un altro essere maschio, niente più che essere persona. Piena, realizzata, vera». Accarezza l’idea di presentarsi così in salotto, ma poi, cauto come sempre, ci rinuncia, si lava e se ne va a dormire. La mattina dopo, nel salutarlo, Claudia gli dice, senza manifestare sorpresa alcuna: «– Quando ti strucchi devi fare un’emulsione col sapone, altrimenti ti resta l’ombra pasticciata».
Tutto bene, insomma, finché il racconto si attiene al punto di vista di Francesco, irresoluto e goffo, mentre Claudia, sfuggente e enigmatica, è inquadrata dall’esterno. Ma da un certo punto in poi, nei capitoli tedeschi, il racconto assume per lunghi tratti il punto di vista di Claudia. Il risultato è che la fisionomia del personaggio perde fascino, le sue insicurezze e oscillazioni si sommano alle insicurezze e alle paure di Francesco, e la vicenda diventa prevedibile; tant’è che il ménage à trois con il georgiano Andria, che dovrebbe essere l’acme dell’educazione erotico-sentimentale del protagonista, risulta francamente noioso.
Il romanzo vira così verso il rosa – poco importa se rosa shocking o rosa fenicottero – con le scene più spinte nei locali notturni di Berlino, l’accumularsi di relazioni più o meno fugaci. E di irregolarità in irregolarità la vicenda si avvia a una conclusione che ha tutto il sapore di un happy queer ending: anziché il matrimonio, legame esclusivo e perpetuo fra un uomo e una donna, la conferma di un’amicizia amorosa fra due personaggi di sesso diverso e dalla cangiante identità di genere, nel segno di una speculare accettazione di sé e dell’apertura a un futuro definitivamente provvisorio e mutevole.
Un mix di glamour e impegno civile? Certo, Spatriati è un romanzo rassicurante: non scuote, non inquieta, invia un messaggio sostanzialmente ottimistico. Ma non è un prodotto confezionato a freddo e non nasce dal calcolo. È un’opera di integrazione. E che abbia riscosso un premio letterario importante in una stagione in cui alla pandemia si sono aggiunte la guerra, la crisi, la siccità, non può in fondo sorprendere.