The End. Berlusconi & Cattelan

10 Novembre 2011

Per una strana combinazione capita che la crisi finale del governo Berlusconi, con le dimissioni annunciate del suo leader, l’italiano più famoso nel mondo, cada nei giorni in cui si inaugura al Museo Guggenheim di New York la mostra del più celebre artista italiano, Maurizio Cattelan, dall’emblematico titolo: All. Una coincidenza casuale ma che ci permette di ragionare su cosa è stato il berlusconismo nel periodo che va dalla fine degli anni Ottanta ai nostri giorni guardando il tutto attraverso la specola della mostra newyorkese dell’artista padovano, trasferitosi armi e bagagli, da almeno vent’anni, in America.

 

 

 

Nello spazio spiraliforme dell’edificio progettato da Frank Lloyd Wright, che accoglie le opere dell’artista italiano, queste galleggiano nel vuoto appese a corde. Sculture, installazioni, fotografie, dipinti, lavori su carta, tutte opere realizzate a partire dagli anni Ottanta – l’età d’oro delle televisioni commerciali di Berlusconi – ad oggi, galleggiano nell’aria in un vortice di immagini che colpisce e insieme confonde i visitatori. Il motivo della sospensione è assai presente nell’opera di Cattelan, a partire da una installazione che provocò un vero e proprio choc visivo e di costume nel 2004, quando appese a un albero di una piazza di Milano tre fantocci raffiguranti in forma molto realistica tre bambini. Un’impiccagione che suscitò la risposta negativa di parte della pubblica opinione. Come scrive la curatrice della mostra, Nancy Spector, l'installazione americana rivela un senso di morte che si percepisce nell’intera opera artistica di Cattelan: “Issati per mezzo di una fune, come su una forca, gli oggetti rivelano in maniera esplicita il senso di morte che pervade tutta la sua opera”. Nel suo insieme, scrive nel catalogo dell’esposizione (Maurizio Cattelan, All, a cura di N. Spector, Skira), l’installazione appare come un’esecuzione di massa. La Spector aggiunge: “Più che l’arguta rappresentazione dell’apice di una carriera, la mostra ne esprime la fine”.

 

Questa è la prima curiosa coincidenza, non voluta da nessuno, ovviamente: mentre Silvio Berlusconi lotta con unghie e denti per non uscire di scena, l’artista più significativo di quella che con ogni probabilità verrà chiamata in futuro l’ “epoca berlusconiana”, decreta invece la propria stessa fine. Nell’ultima foto della monografia si scorge Maurizio Cattelan correre via con una pietra tombale sotto braccio, su cui è scritto “The End”. Gioco ironico, ovviamente, perché né Cattelan, né tanto meno il Presidente del Consiglio, si stanno davvero congedando da noi, o almeno non vorrebbero davvero farlo, ma lo fingono solamente. Cattelan poi, dicono i suoi commentatori americani, è già teso verso “una nuova fase post-oggetto, post-azione e post-mostra della sua carriera”.

 

 

Vorrei tornare su quella sospensione, meglio sull’impiccagione. Nell’installazione dei bambini a Milano Cattelan citava tra le altre cose un libro fondativo dell’identità italiana, il più celebre libro della nostra letteratura moderna, Pinocchio di Collodi, dove il burattino (personaggio decisivo per comprendere la nostra storia culturale e il nostro inconscio collettivo) viene impiccato dal Gatto e dalla Volpe all’albero della Quercia grande, e lì oscilla spinto dal vento, morto e vivo a un tempo. L’immagine dell’impiccagione è ben presente nell’immaginario italiano della seconda metà del XX secolo. La fine di Benito Mussolini – l’altro italiano più famoso nel mondo insieme a Berlusconi – fu appeso morto a testa in giù, in segno di disprezzo, in Piazzale Loreto nel 1945, in una sconcia esibizione che rovesciava la sua figura di capo carismatico e corpo sacrale di tutto il ventennio del suo dominio.

 

Questo fantasma – Piazzale Loreto – è stato più volte presente nella fantasia vendicativa di una parte degli italiani, che hanno immaginato in questo modo la fine del potere mediatico e politico di Berlusconi, durato quasi quanto quello di Mussolini, se non di più. Gli avversari del leader del Popolo delle Libertà ritengono che il suo dominio superi la stessa dialettica e alternanza elettorale, configurandosi di fatto come un vero e proprio regime, e immaginano una resa dei conti a Piazzale Loreto. La stessa politica corporale del Capo spinge a simili farneticazioni. E che questa sia una fantasia non solo dei nemici di Berlusconi, ma agisca nelle teste dei suoi sostenitori e di lui stesso è dimostrato da due piccoli fatti reperibili nella cronaca dell’8 novembre, giorno in cui è sta messa in crisi la maggioranza parlamentare che sostiene il Presidente: il riferimento alle lettere di Mussolini a Claretta Petacci, con lui appesa a testa in giù nella piazza milanese, nell’intervista che Berlusconi ha rilasciato telefonicamente al direttore de La Stampa, Mario Calabresi (9 novembre 2011) e nelle dichiarazioni di una giovane parlamentare del PdL, Barbara Mannucci in cui si fa riferimento a Mussolini e all’amante del Duce stessa (“Con lui fino alla fine come Claretta Petacci”, La Repubblica, 9 novembre 2011).

 

 

Ora, che vi sia un rapporto immediato tra le opere sospese nel vuoto della spirale disegnata da F. L. Wright a NY, e la volontà di sospendere, almeno fantasmaticamente, a una fune il corpo di Berlusconi, da parte dei suoi avversari politici – quasi la metà dell’intero paese, se si dà retta ai voti ottenuti dai partiti di opposizione – non è affatto così sicuro. Anzi. Ma c’è tuttavia qualcosa di comune, come una continua allusione o un rinvio che fa riferimento a moti e impulsi inconsci che solo gli artisti sanno cogliere e mettere in luce, senza però mai trasformarli in un teorema o un’affermazione certa. A fare da tramite inconsapevole tra la carriera dell’artista padovano, che culmina con la mostra di NY, e la carriera del tycoon televisivo, nonché uomo politico, sono numerosi segni sparsi nell’opera di Cattelan, che si possono leggere come il corrispettivo, seppur critico, di quello che è stato il berlusconismo nel nostro Paese negli ultimi trent’anni.

 

In questo senso l’opera più emblematica di questo è quella con cui Maurizio Cattelan debutta ufficialmente, se così possiamo dire, sulla scena artistica, dopo un primo inizio spurio come designer-artista: Lessico famigliare. Si tratta di una fotografia dell’artista stesso contenuta in una cornice d’argento in cui posa a torso nudo con le mani disposte sul torace in modo da formare la sagoma del cuore. A parte la citazione di un celebre libro narrativo di Natalia Ginzburg, intitolato appunto Lessico famigliare, non esiste un’opera prodotta in quegli anni, il 1989, anni della caduta del Muro, che rappresenti in modo più efficace l’atmosfera di quell’epoca, i valori e i bisogni espressi dalle televisioni berlusconiane. Non a caso l’89 è l’anno in cui va in onda su rete quattro C’eravamo tanto amati, programma presentato da un imbolsito Luca Barbareschi al suo debutto televisivo (Aldo Grasso), mentre, tra uno spot pubblicitario e l’altro, Canale 5 e le altre televisioni del gruppo mandano in onda diverse trasmissioni dedicate ai sentimenti, all’amore, nella sua versione narcisistica più ostentata. Il narcisismo di massa, per dirla con Lasch, che conquista un paese ex cattolico ed ex comunista, come aveva profetizzato quattordici anni prima Pasolini. Se Cattelan è stato un artista politico, come alcuni sostengono a ragione, è solo nel solco della cultura berlusconiana degli ultimi trent’anni che può essere letta la sua opera, compresa l’“estetica del fallimento” che, secondo la Spector, ne costituisce la più intima vocazione.

 

 

L’insicurezza e la paura del fallimento sarebbero dunque le muse che alimentano la stessa capacità creativa di Cattelan. Non è difficile vedere nella medesima parabola berlusconiana un analogo sentimento della vita e del mondo, per quanto rovesciato nel suo opposto, grazie a un grande sforzo cui hanno collaborato almeno un paio di generazioni di artisti, intellettuali, registi, manager televisivi. Silvio Berlusconi esprime un sentimento di morte che ha appunto nel corpo medesimo il suo campo di battaglia. Un’estetica, la sua, che si è estesa all’intera società italiana trasferendo, sublimando, come si dice in linguaggio psicoanalitico, l’istinto di morte, iscritto, se vogliamo, nella antica cultura precristiana e pagana dell’Italia, in un falso istinto di vita: istinto di morte travestito nel suo opposto, mediante l’esibizione del sesso, del consumo, la felicità continua e apparente dell’Happy end.

 

Maurizio Cattelan, artista ironico, irriverente, che agisce mediante l’uso di tecniche artistiche spurie, mediante l’utilizzo, per quanto distorto e rovesciato, delle tecniche pubblicitarie e del marketing, punteggia tutto questo movimento di trasformazione, di restiling, se non proprio di lifting, dell’intero Paese, rivivendo nelle sue opere più efficaci la caparbia volontà d’occultare il senso di morte che circola sotto le magnifiche sorti e progressive del berlusconismo televisivo, prima, e politico, poi. Da Christmas ’95 con la stella a cinque punte delle Brigate Rosse, trasformata nella stella dei Re Magi, a Bidibidobidiboo (1996), con lo scoiattolo suicidato nella squallida cucina di mobili di formica, l’artista padovano mette in luce il fallimento da cui proviene la stessa società italiana – operaia, contadina, sottoproletaria – e il nuovo fallimento, di cui in questi mesi, autunno del 2011, cogliamo la portata non solo economica, ma anche, e soprattutto, morale e culturale dopo diciassette anni di dominio politico e sociale di Silvio Berlusconi.

 

 

Naturalmente ci sono altre opere degli anni Novanta, e successivi, che mostrano acutamente i cambiamenti in corso, opere dall’evidente contenuto politico come Lullaby (1994), che utilizza le macerie dell’esplosione del Pac di Milano per mano della mafia – episodio oscuro che precede di poco l’avvento al potere di Berlusconi, la sua “discesa in campo” –, e L.O.V.E., la scultura inaugurata nel settembre del 2010 davanti alla sede della Borsa milanese: la mano aperta con le dita mozzate, salvo il dito medio, levata contro la facciata del palazzo che ospita le istituzioni finanziarie italiane. Nel lavoro di Cattelan si alternano opere sul fallimento stesso dell’artista – di lui stesso come artista – e opere che più “politiche”, che si riferiscono alla situazione collettiva dell’Italia, in un pendolarismo di significati che andrebbe ulteriormente sondato (con anche continui scambi tra il “privato” e il “pubblico”).

 

È indubbio che in senso positivo, come in senso negativo, Cattelan punteggia e descrive quello che è stata l’Italia nel corso degli ultimi decenni. Per quanto il suo sguardo di artista sia sempre rivolto alla realtà dell’arte e del mercato internazionale, resta tuttavia pur sempre un artista profondamente italiano, con padri e nonni iscritti nell’album del Bel Paese, da Piero Manzoni a Pasolini, da Collodi a Berlusconi medesimo. In questi decenni trascorsi egli ha seguito l’agenda del presente, la medesima agenda che il Presidente del Consiglio, prima in veste di capo del network televisivo più importante del Paese e poi in quella di esponente del partito di maggioranza, ha dettato all’intera Italia. Cattelan è stato, se così si può dire, il suo simmetrico, alternando ironia e tragedia, comicità e dramma. Ha intelligentemente preso e spostato ogni movimento più o meno consapevole che lo sviluppo del berlusconismo ha prodotto nel corpo stesso dell’Italia. Il corpo, appunto, del Capo, corpo liftato, stirato, manipolato, trapiantato, ne è stata la metafora vivente più efficace, cui Cattelan ha contrapposto immagini alternative, ma anche descritto in modo ironico il suo movimento più intimo. Un perfetto artista dei nostri anni, artista profondamente drammatico, che ha anticipato e a volte seguito i movimenti e gli spostamenti progressivi della realtà italiana.

 

I feticci appesi al Guggenheim di NY raccontano la storia recente meglio di un libro aperto, proprio perché, come è tipico dell’arte, non ci forniscono spiegazioni, ma indicano e suggeriscono, suggestionano e fanno pensare, divertono e lasciano sorpresi. Sono appunto feticci, non opere vere e proprie, perché questo è il grande pregio e insieme il limite della sua arte: indicare il mondo in cui viviamo, descriverlo e insieme giocarlo (il gioco come realtà infantile, attività senza scopo e senza senso, a perdere). Un’arte del presente, non del futuro.

 

 

Tra quei feticci potrebbe benissimo pendere un pupazzo realistico di Silvio Berlusconi, un suo alias o replicante perfetto, nel momento della sua caduta che è anche, a suo modo, il momento del suo trionfo. Anche lui potrebbe allontanarsi come fa Maurizio Cattelan con la pietra sottobraccio su cui è scolpita la dicitura di Fine. Un congedo che è anche un arrivederci, perché non sarà facile liberarsi di lui, dei veleni che ha inoculato in vent’anni nelle vene del Paese. Cattelan ci ha avvisati, e con l’esposizione americana ci invita a guardare avanti, al di là dei stessi feticci appesi alle corde, immagini di un’arte che muore, e forse risorge altrove. Cosa che non è consentita ai politici, sia quelli appesi sia a quelli usciti in punta di piedi dalla porta laterale. Il resto si vedrà. Buon viaggio Maurizio. Buon viaggio Presidente.

 

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