Cosa rimane di una persona perduta la memoria? / Idda, di Michela Marzano
Ho l’abitudine di leggere i romanzi pensando che ognuno di essi, in fondo, non faccia che porre una domanda; tanto più la domanda mette in crisi il lettore, quanto più il romanzo è riuscito a scalfire la superficie delle cose. Ho altresì l’abitudine di pensare che la letteratura debba in prima battuta raccontare l’indicibile, o perlomeno porsi l’obiettivo di farlo. Svuotare una cantina ordinata e pulita è un lavoro comodo, ma non serba mai nulla di interessante; non quanto le sorprese che ci restituisce un ripostiglio nel quale il tempo e la memoria si sono stratificati, anno dopo anno, caos su caos.
La domanda che pone Michela Marzano nel suo ultimo romanzo, Idda (Einaudi Stile Libero), arriva a pagina 105. Alessandra, la protagonista, cerca di capire cosa rimane di una persona dopo che questa ha perduto la memoria. È il caso della suocera Annie, affetta da Alzheimer, ora che è giunta alla fase più drammatica della malattia e non sa più nominare gli oggetti, non è più capace di badare a se stessa, non sa vestirsi, non riconosce neppure il figlio, non ha memoria, se non tenui e rarefatte scintille di ciò che è stato.
Alessandra lo chiede alla dottoressa Brun che ha in cura Annie. La dottoressa risponde usando una formula specialistica. Parla di ciò che resiste in una mente svuotata dal male. Li chiama “residui di sé”. È un’espressione spaventosa, che rende bene il disastro compiuto dal morbo, ed esplicita in due parole la distruzione materiale di tutto ciò che un essere umano è stato, evocando infine ciò che rimane, resti organici, spoglie inservibili, gli escrementi di una vita vissuta e digerita.
Alessandra incalza la dottoressa, le dice di aver paura di finire come Annie, di non essere più se stessa, di perdere il controllo. È a questo punto che la dottoressa le pone la domanda fatale, quella che mette in crisi il lettore: “Non pensa che ognuno di noi abbia diritto al decadimento?”.
Ecco, è questo il fuoco del romanzo di Michela Marzano, il vero centro.
Alessandra vive a Parigi con il fidanzato Pierre. Insegna biologia vegetale all’università. Studia le piante perché sono organismi autotrofi, capaci di produrre da sé le sostanze di cui necessitano. “Le piante non hanno bisogno di nessuno. Niente legami, niente relazioni, niente di niente”. In fondo ambisce a essere lei stessa una pianta, da quando il trauma senza rimedio della morte della madre l’ha spinta a separarsi in via definitiva dal padre e a lasciare la Puglia, dove ha sempre vissuto, per la capitale francese. Il suo passato è sepolto sotto una cappa di rimosso. Non crede nella famiglia, non vuole figli, accetta solo l’amore di Pierre, un uomo gentile come un bambino, incapace di malizie e di rancori.
Il rapporto che stringe con la madre di lui, Annie, è viscerale e al contempo simbolico. È una sorta di treno su cui Alessandra sale per ristabilire un contatto con il proprio passato. A condurla nelle pieghe più profonde di questo rapporto non è solo il desiderio di accudire Annie, né la spinta a sublimare il lutto per la perdita della madre, e quindi a sostituirla con una figura vicaria, ma è soprattutto un modo per aprire di nuovo i battenti della propria memoria, una casa rimasta sigillata per anni, ostinatamente ignorata.
È così che Alessandra decide di intraprendere un’indagine. Uno scoperto importante nel conto bancario di Annie, dovuto ai raggiri di una ex badante, convince Alessandra e Pierre a mettere in vendita la casa della donna. Ma per farlo devono prima svuotarla. È l’occasione per toccare con mano un universo di oggetti personali: quaderni di esercizi, contratti di matrimonio, atti notarili, biglietti e un carteggio che testimonia dell’amore tra Annie e suo marito Jean, conosciuto negli anni Cinquanta quando entrambi lavoravano in un’azienda di trasporti petroliferi. Un amore di cui in realtà Pierre non conserva tracce: “Non ricordo di aver mai visto i miei scambiarsi una tenerezza o anche solo guardarsi con amore”.
Emil Cioran sosteneva che la mancanza di salute è la coscienza acuta di avere un corpo. Questa definizione si adatta alla maggior parte delle malattie che affliggono l’essere umano. Non vale tuttavia per certe forme di demenza neurodegenerativa per le quali vale invece l’esatto contrario. In quei casi la mancanza di salute è la NON coscienza acuta di avere un corpo. Essere, ma al contempo non poter discernere le qualità essenziali del proprio essere, qualità che sono riassumibili in tutte le cose che concorrono alla formazione della nostra identità: il vissuto, i ricordi, le impronte lasciate dalla vita sulla psiche.
Tra quei residui di sé di cui parla la dottoressa Brun c’è la capacità di provare affetto. Affetto verso cosa? Un affetto che è un sentimento senza causa, una qualità dell’essere senza l’essere. Un paradosso senza soluzione. “A che serve l’affettività se non si riesce a esprimerla?”, si chiede infatti Alessandra. Ma questa domanda, più che alla povera Annie, sembra essere rivolta a se stessa e alla paralisi emotiva di cui soffre.
Nella coscienza di Alessandra, la ricostruzione del passato di Annie va di pari passo con il desiderio di arieggiare di nuovo quella casa della memoria. È allora che decide di tornare in Puglia, dopo un’assenza durata quindici anni, per confrontarsi col padre, l’uomo che lei ha sempre ritenuto responsabile della morte della madre. E tutto questo perché, nonostante i naturali processi di rimozione, ogni vita umana porta dentro di sé il ricordo di un episodio più o meno rilevante, di un evento che ha frantumato l’unità del sistema psichico.
I traumi che si portano dentro le due protagoniste appartengono a quegli eventi che si inabissano e riaffiorano continuamente, assumendo ogni volta fattezze diverse. Eventi che in taluni casi possono risolversi, trovare una loro collocazione, essere metabolizzati dalla psiche, altre restano insoluti, si ostinano per tutta la vita a minare il carattere e la percezione della persona, a divorarla da dentro.
È soprattutto a questa seconda categoria di casi che è rivolta la domanda della dottoressa Brun intorno a cui si incardina tutto il senso più riposto di questo romanzo: “Non pensa che ognuno di noi abbia diritto al decadimento?”.
Come scrive Virgilio nel VI libro dell’Eneide: “Le anime che per fato devono cercare un altro corpo, bevono sicure acque e lunghe dimenticanze sull’onda del fiume Lete”. Forse il decadimento a cui tutti abbiamo diritto è proprio questo: un fiume in cui tuffarci per poterci reincarnare, un fiume dalle acque magiche capace di farci dimenticare le nostre vite passate.