COMPLEX TV / Euphoria di adolescenti
Sam Levinson è figlio d’arte, e ha esordito come attore ragazzino in Toys, diretto dal padre Barry nel 1992. Come sceneggiatore e regista oggi trentacinquenne ha messo in gioco se stesso e la sua percezione del nuovo millennio, nato per gli americani l’11 settembre del 2001 con il crollo delle Torri Gemelle interiorizzato come fine del sogno americano. I suoi adolescenti crescono dentro due paesaggi con rovine emotive: quello dell’attentato islamista e quello ormai lungamente disgregato della famiglia della classe media americana. Dopo i suoi film Another Happy Day e Assassination Nation, Sam Levinson affronta ora la complex tv, scrivendo e dirigendo gran parte delle otto ore della prima stagione di Euphoria. Lo storytelling è affidato alla protagonista Rue, che comincia a narrarsi sin dalla vita intrauterina, con puntuali ritorni in orbita di flashback del suo passato di bambina, di ragazzina e infine di ragazza maniaco-depressiva che slitta consapevolmente dagli psicofarmaci ai farmaci usati come droghe.
Verso i diciassette anni è ormai una drogata che si umilia davanti alla squallida porta del pusher per un po’ di pasticche, e che sfiora la morte quando un bastardo boss dello spaccio vuole farle provare il Fentanyl.
Il suo tenero pusher in realtà le vuole così bene che tra tutti i personaggi della serie lui è l’unico che metta in pratica uno dei fondamentali dell’amore, ovvero la protezione dalla sofferenza della persona amata. Il pusher è qui colui che ha cura-di. Euphoria avrebbe potuto essere l’ennesimo teen drama che racconta la deriva senza valori dei nostri figli adolescenti, apparentemente asfaltati dalla feccia commerciale spacciata per loro: rap misogino e violento per gli afroamericani, football, stupri e bullismo per i bianchi, caccia ai cazzi e supertrucco glitter e sfrontati sculettamenti per le cheerleaders alla Miley Cyrus. Il peggio del peggio assunto come cinico esibizionismo senza pudore: “Essere pieno di soldi senza fare un cazzo e divertirmi” a un certo punto ha riassunto un adolescente italiano in risposta a mia precisa domanda sulla sua prospettiva di vita.
Levinson non casca nella serialità banale. Ha due strumenti: la creazione di personaggi che sono ai margini del turbine e raccontano se stessi come marginali senza valori alternativi; la regia e il montaggio che spesso mollano la cronologia narrativa ed entrano in una soggettiva emotiva e percettiva che dilata in lunghe sequenze un’emozione solitaria, una corsa in bicicletta nella sera, uno sballo, una trasgressione, un’eccitazione amorosa, un dolore fisico o morale.
Rue è interpretata da Zendaya, già icona afroamericana del fashion e dell’impegno civile con decine di milioni di follower su Instagram; raccontando se stessa Rue elabora consapevolezza durante le narrazioni; non si stima per niente, sa che il suo conflitto con la madre è solo colpa sua, sa che i ragazzi la evitano perché non si traveste da oggetto sessuale e perché non ride, non è allegra, non diverte nessuno. Fa già una fatica spaventosa a vivere e comincia ad accodarsi a branchi nelle feste solo quando in città arriva una nuova, una «vestita da Sailor Moon», che Rue va subito a cercare. Jules è l’altro formidabile personaggio di Euphoria: l’attrice transgender che la interpreta è un’altra icona, nella vita e sui social, Hunter Schafer protagonista nel movimento LGBTQ americano e ormai amica di altre “modelle” dello style e delle battaglie per i diritti come l’adorabile britannica Jameela Jamil di The Good Place.
Mettiamo almeno un paio di puntate per capire che Jules ha cambiato città con suo padre perché la transizione potesse essere vissuta senza passato, ma il suo modo di essere resta il suo: libero e vero e affettuoso e sfrontato, e anche nel nuovo college va subito in rotta di collisione con la massicciata maschilista e violenta di figli e padri. Così Rue, Jules e il tenero pusher Fezco interpretato da Angus Cloud diventano chiaramente il triangolo dei prediletti di Levinson; sono i personaggi “positivi” perché protagonisti-antagonisti, isolati dalla prepotenza volgare della “maggioranza” di adolescenti che vive all’ombra di genitori e insegnanti, che nulla di nulla sanno o intercettano del loro universo, più violento e disperato di quello camuffato degli adulti, apparentemente rispettosi di ipocrite “rules”.
Rue certamente si innamora poco alla volta della sua amica strana. Solo loro si sdraiano la sera in un letto e si parlano sinceramente, a lungo, si carezzano, si abbracciano, e non fanno l’amore perché-si-deve-scopare. Lo stronzo Nate, lo scontato “quarterback” della squadra di football del college, separa Jules e Rue con la sua escalation di violentissimi ricatti, ma solo Jules e Rue infine convergeranno per smascherare un quadro che ricalca credo in modo esplicito (un “omaggio”) il disperato squallore della post-famiglia yankee di American Beauty e la segretata sodomia brutale dell’eterosessualità militarista. Rue arriverebbe con naturalezza al desiderio erotico di Jules dopo che ha trionfato nella disintossicazione e si è restituita alla lenta apocalisse delirante della depressione, raccontata da Levinson (e dalle sue co-sceneggiatrici e co-registe Dahna Levin, Pippa Bianco, Augustine Frizzell, Jennifer Morrison) con la specifica tecnica filmica che è cifra talentuosa di Euphoria: dilatazione soggettiva e sensoriale del tempo, della luce, del sonoro, via crucis del nulla, del vuoto, dell’inutile, del lento, dell’interminabile che solo chi ha vissuto la depressione può narrare così precisamente.
Ma Jules ha una sessualità diversa: non ama far l’amore con le ragazze, se non per capriccio variante, è anale, passiva, e si sente appagata solo se posseduta. E proprio le due sessualità diverse non si uniranno, e ritorneranno Jules su un treno libera e sola in un’altra ripartenza della sua liceità; Rue nella sua microfamiglia di donne, a sostenere la sorellina che comincia a barcollare tra droghe e maschi stupratori nella sua prima adolescenza. Euphoria ha passato per un pelo il vaglio della censura televisiva federale americana, e Sky Atlantic ha scelto di trasmettere la produzione HBO in seconda serata in pochi giorni per poi trasferirla in box set per evitare che una visione superficiale diffondesse la sua crudezza come modello di degrado piuttosto che come allerta etica.
Solo Fleabag, l’ilarotragica serie della britannica Phoebe Waller-Bridge era stata sinora tanto cruda, diretta nel raccontare l’intimità sessuale e mentale contemporanea. Euphoria è un po’ mimetizzata tra gli stereotipi “teen”, ma anche questa volta il cammino è dal sesso porno all’amore, dagli eccessi di droga alla sofferenza accettata e attraversata, dal branco all’amicizia, da famiglie-dobermann a ricostruzione di rapporti interpersonali non obbligati.
“O mizos delòi”, la favola insegna con narrazione innovativa che l’euforia, la sovreccitazione obbligatoria, sono la bugia che spurga dal cuore del “sistema”, la “matrix” che ci fa infelici per farci acquistare grammi di farmaci per secondi di silenziamento della tristezza. Rue e Jules hanno capito che è una guerra capirlo, che si perdono occhi e braccia sul campo di battaglia della consapevolezza, ma che alla lunga solo l’ossitocina spacciata da coccole e abbracci ci permette di arrivare alla prossima stagione (di Euphoria, e nostra).