Daniel Halévy / Degas parla

27 Febbraio 2019

Edgar Degas è stato un personaggio straordinario, artista riconosciuto ma problematico almeno tanto quanto chiacchierato il suo carattere. Sicuramente le due cose vanno insieme, arte e personalità, per questo le testimonianze dei contemporanei sono determinanti oltre che gustose da leggere. Con la pubblicazione di Degas parla di Daniel Halévy (Adelphi, Milano 2019, traduzione di Tommaso Pezzato) in italiano ne abbiamo tre che è interessante, forse necessario, vedere insieme.

Artista problematico, dicevo, perché al di là del valore indiscusso resta il più tradizionalista degli impressionisti, gruppo al quale è assimilato ma a nessuna delle peculiarità del quale aveva aderito veramente (l’en plein air? Uh, quanti spifferi!, diceva), ponendo così un problema storico non peregrino, tanto da essere impugnato perlopiù e tutt’oggi per argomentazioni conservatrici. Ma l’apparente contraddittorietà del suo carattere mette subito sull’avviso che in gioco c’è un nodo difficile da districare, un “segreto” che forse scavalca, con un “salto della tigre” direbbe Benjamin, le questioni legate a una visione della storia dell’arte progressiva.

 

 

Partiamo da Paul Valéry (Degas Danza Disegno, trad. it. di Beniamino Dal Fabbro, SE, Milano 1999), perché il ritratto che ne ha fatto è davvero ineguagliabile e definitivo: “grande e severo artista, essenzialmente volitivo, d’intelletto raro, vivo, sottile, inquieto: che nascondeva sotto l’assolutezza delle opinioni e il rigore dei giudizi non so quale disperazione di essere soddisfatto”, “rifiutava la facilità, come rifiutava tutto quello che non fosse l’unico oggetto dei suoi pensieri. Nessuno ha disprezzato più positivamente di lui gli onori, i vantaggi, la fortuna”; “fedele, scintillante, insopportabile... Diffonde spirito, terrore, allegria. Ferisce, mima, prodiga battute, apologhi, massime, scherzi, tutte le risorse dell’ingiustizia più intelligente, del gusto più sicuro, della passione più rigorosa e d’altronde più lucida”. Valéry è acutissimo, mira alla comprensione totale, non va per sfaccettatura bensì al cuore dell’arte di Degas, al “disegno” come forma e alla “danza” come tema, entrambi in realtà modalità e metafora del modo d’essere di Degas, il suo pensiero e arte “dei movimenti volontari” ma che non hanno né causa eccitante né risoluzione raggiunta, movimenti che hanno in se stessi il proprio scopo, “quello di creare uno stato”, quello che consiste nell’“ornamento della durata”.

 

 

D’altro canto, sintetizza fulmineamente: “Vi è un’immensa differenza tra il vedere una cosa senza matita in mano, e il vederla mentre la si disegna”.

Valéry guarda dentro il processo creativo, dentro il nodo di Degas, fenomenologicamente ne vuole cogliere il funzionamento, la ragione intima che determina il comportamento, la sua verità al di là del suo significato. Comprendere Degas e la sua arte, e l’arte, per lui sono una cosa sola, senza spiegazione (uno degli anatemi più ripetuti da Degas e da tutti i suoi testimoni è appunto: “soprattutto niente spiegazioni”; niente critici d’arte, che appunto affrontano l’arte come per spiegarla). Si guardi il mirabile equilibrio di linea, colore e materia, tutti valorizzati nessuno a scapito dell’altro, così come la sospensione del gesto còlto nella sua esattezza ma anche nella sua stranezza, che tiene insieme stasi e movimento come due aspetti dello stesso essere. Non c’è contraddizione, ma ci vuole testardaggine e difesa del proprio convincimento, pur tra disperazioni e intransigenze.

 

Ambroise Vollard invece (Ascoltando Degas, trad. di chi scrive, Castelvecchi, Roma 2017) è un mercante d’arte, non scava nel nodo, lo guarda da fuori, ne guarda e racconta la superficie, è superficiale nel senso warholiano, come uno sguardo dall’alto, che vede l’essenziale emergere, trasparire. E allora raccoglie aneddoti, fa un racconto leggero, ma, in questa mancanza di riflessioni e osservazioni critiche, questo non parlare mai d’arte direttamente, questo impregnare tutto di questioni di denaro e di “affari”, ma parlare comunque solo di cose, di persone e di fatti, se sta la contraddizione della situazione specifica del mercante, sta anche la sua ambizione di parlare in modo perfino discreto e trasversale di un oggetto fragile che si ama: che siano gli eventi stessi a parlare. 

 

 

“Nel mio libro su Degas”, scrive, “ho tentato di fissare qualche tratto della personalità dell’uomo, fatta al tempo stesso di apparente crudeltà e di sensibilità dominata; questa sensibilità fu per tutta la vita la sofferenza di Degas”. Questa la chiave di lettura indicata con insistenza. Allora la conoscenza diretta, la frequentazione più intima, e l’aneddotica di prima mano, possono aiutare a capire, correggere l’immagine costituita dell’artista, gettare luce per questo sulla particolare personalità dell’artista.

Daniel Halévy ha un approccio ancora diverso e singolare. Ha conosciuto Degas da ragazzo, provando subito un’ammirazione incondizionata: come ripeterà per tutta la vita, egli incarnava per lui l’idea stessa di grandezza. Degas era amico di famiglia e si presentava frequentemente alle ore dei pasti. Era un conversatore affascinante e il ragazzo ne resta subito ammaliato e prende appunti fin dall’inizio. Il libro Parla Degas è la raccolta e ricostruzione di quelle annotazioni messa insieme più tardi. Coprono gli anni dal 1887 – Degas è del 1834 – alla morte, 1917, anni in cui l’artista è già sofferente per cause diverse, l’inizio della cecità in primis, ma anche per vicende famigliari. È ormai famoso e corteggiato, ma con il carattere e le convinzioni che ha è anche temuto. Il volume comprende inoltre i testi che Halévy ha scritto su Degas, uno subito dopo la sua morte e uno appena prima di mettere insieme i ricordi e per questo giustamente messo ad introduzione. In esso vi è la sintesi e la riflessione su quanto è sparso nei ricordi stessi.

 

Halévy dunque affronta il nodo, ma da un altro punto di vista. Non indugia sulle questioni estetiche, di fronte alle quali pare di vederlo a bocca aperta all’ascolto delle sintesi aforismatiche di Degas; non le vuole analizzare né commentare, gli appaiono fulminanti e d’altro canto la sua ammirazione non gli permette di osare entrare nel merito, per il timore di rompere l’incantesimo, di banalizzare ciò che sente come un condensato perfetto. Cerca invece di interpretare degli aspetti generali, di disegnare lo sfondo su cui si staglia questo intrico di uomo e artista. Fa così emergere delle questioni anche storiche che gli altri due non hanno toccato e che non sono così secondarie, anzi evidenziano altri aspetti e temi.

Così, come interpretare il “conservatorismo” di Degas? Degas è stato l’ultimo di un’epoca tramontata di cui rappresenta la nostalgia? Aveva quei 5-6 anni di differenza da Monet e Renoir che fanno certo una qualche differenza, che Halévy interpreta in modo interessante rilevando che Degas è figlio sì del Secondo Impero, ma di un “Secondo Impero segreto”, come lo chiama, “lontano dallo splendore chiassoso del Secondo Impero pubblico”. È il Secondo Impero di Sainte-Beuve, di Flaubert, Renan, Berthelot, Baudelaire, e, in ambito delle arti visive, di Puvis de Chavanne, di Courbet, e di Manet, di appena due anni maggiore di lui, in cui si preparava la modernità, la vita urbana che costituisce il soggetto del primo (o secondo, dopo il soggiorno in Italia) periodo di Degas, il teatro, la musica, la danza, lo spettacolo, la “scena”, dice giustamente Halévy, le “foreste di cartone e i cieli dipinti del «grand opéra»”, di cui egli spia le quinte, dove “si cela una festa per il suo intelletto”. Qui c’è il problema e qui c’è il segreto, in questo rapporto con il mondo finto-dipinto “di spettacolo e di visione”, come scrive Halévy.

 

 

Il quadro topico per lui è quel Ritratto di Eugénie Fiocre, del 1866, dove la scena da storica si rivela essere teatrale. Degas dunque fa di quel mondo il suo mondo e comincia a dipingere musicisti, ballerine, spettatori, corse dei cavalli... il mondo al di là dello specchio, quello dello spettacolo. E anche dopo, quando sembrerà all’opposto il mondo del quotidiano, della realtà, quello delle stiratrici, delle pettinatrici, delle donne che si lavano, meravigliose metafore della pittura, non saranno altro che ballerine di un altro tipo, in altri ambienti e con altri gesti, ma sempre nell’idea della danza, del gesto, della scena còlta dallo “spettatore”, quando non del voyeur. Strano realismo il suo dunque, realismo della finzione, un paradosso, un nodo. Non è Halévy a dirlo, ma sembra suggerirlo con quella faccenda del “segreto”, e con la sua insistenza – siamo nel periodo seguente, il terzo, quando scrive, quello dei segni della vecchiaia – sulla descrizione di Degas come un nomo in lutto, per le disgrazie e morti famigliari e soprattutto per la cecità sempre crescente, lutto che estende per il disegno e per la pittura, “perduta per sempre”, ma in realtà inseguita ancora e ancora. Proprio per questo, più che una nostalgia quella di Degas è appunto l’elaborazione di un lutto, da reinterpretare, diremmo oggi, secondo i “trauma studies”. Halévy se lo sente dire, in forma di rimprovero, dall’amico Jósef Czapski: quello che non hai còlto è la bellezza nuova, in quelle donne “«contorte», come dite voi, dentro una tinozza, o in campo rosa, o con una criniera rossa su sfondo rosso... di una bellezza che non riesco a non ammirare ancora più di quella delle Fanciulle spartane, mondo idealizzato che mi sembra già un po’ irrigidito”.

 

L’ultimo periodo di Degas, quello delle stiratrici, delle pettinatrici, soprattutto degli audaci nudi nelle tinozze, era visto da molti come il disfacimento della pittura, la sua umiliazione in temi così “bassi” e in deformazioni così provocatorie – anche le sculture: ci si dimentica a volte che l’oggi ammirata Ballerina di quattordici anni era stata paragonata a una scimmia. Di quale bellezza “nuova” stiamo dunque parlando? Per capirlo facciamo appello per esempio a una delle battute riportate da Halévy, rivolta a un’amica: “Devo proprio avere un debole per voi se riesco a perdonarvi tutta la vostra bellezza!” È così che Degas dà a intendere, con un giro intorno alla questione per far emergere qualcosa che altrimenti appare scontato e invece non è, e che perciò va “perdonato”, anche se questo può apparire una debolezza. Altrettanto, e in questo modo, la pittura non è più affare scontato, va ricompresa, e per farlo intendere bisogna essere rudi e scontrosi, “crudeli”. D’altro canto solo così vale la pena di continuare. Se lo è lasciato scappare come un lapsus uno dei colleghi che freuqentavano Degas, Léon Bonnat: “Non mi piace discutere a lungo con Degas; dopo mi sento spinto a cambiare modi di dipingere”, o di pensare.

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