Una conversazione / Toni Servillo o del mestiere di attore

24 Gennaio 2019

Una musica d’altri tempi, lontana, proveniente forse da una radio, forse da un grammofono. La voce di Mistinguette. Francia, anni ‘40, una sala del Conservatoire, la scuola d’arte drammatica, quasi un’isola nel buio. Un giovane attore, compunto, ripassa un copione, Entra un altro ragazzo. Una ragazza irrompe di corsa. Studiano, tutti studiano la parte, finché non arriva il maestro, Louis Jouvet, grande attore, attore raffinato, intellettuale, in cerca d’anima nei personaggi sulla scena e interprete di pellicole popolari. Inizia, soprattutto con la ragazza, Claudia, un vero corpo a corpo per entrare nel monologo che Elvira rivolge a Don Giovanni, nel quarto atto della commedia di Molière, quella meravigliosa parte in cui la donna ammonisce il libertino a temere l’ira di Dio e a convertirsi, trasponendo tutto l’amore carnale che provava per lui, quel fuoco della passione che l’ha portata ad abbandonare il convento, in una nuova passione spirituale, in ammonimento a pentirsi della vita scellerata e a ritrovare una dimensione più umana.

 

Quell’isola circondata dal buio, quel naviglio in acque tempestose, rivive stasera, 19 gennaio, sul palcoscenico del teatro Bellini di Napoli, quello dove nel 1879 nacque a nuova vita Carmen di Bizet dopo il fiasco parigino. La sala ora è diretta dai fratelli Russo, che ne hanno fatto uno dei teatri più importanti dell’area napoletana. Jouvet stasera, come da più di due anni a questa parte, è Toni Servillo; Claudia, l’allieva attrice che interpreta donna Elvira, nello spettacolo Elvira (Elvire Jouvet 40) scritto di Brigitte Jaques è una giovane Petra Valentini, bravissima a passare dall’impaccio e dagli scoramenti inziali di fronte alle difficoltà della parte a una profondità finale toccante. Con loro i giovani Francesco Marino come Octave che interpreta Don Giovanni e Davide Cirri, Léon nel ruolo di Sganarello. 

 

Lo spettacolo, applauditissimo a Milano, dove debuttò al Piccolo Teatro nel 2016 e dove è stato di recente ripreso, ma anche a Parigi, a San Pietroburgo e altrove, porta in scena le sette lezioni sulla parte di Elvira che il maestro francese impartì nel 1940, tra febbraio e settembre, agli allievi del suo corso di recitazione (Claudia in realtà si chiamava Paula Dehelly, era ebrea e sarà travolta dall’arrivo del nazismo, ma sopravviverà e avrà una lunga carriera). Intanto l’Europa si incendiava con la guerra e quella sala prove rimaneva un’isola circondata dal buio del mare in tempesta.

La serata stasera è doppia. Dopo lo spettacolo, concluso tra le ovazioni, sarà proiettato Il teatro al lavoro, un docu-film che segue le prove della pièce e i suoi primi passi in tournée. Firmato da Massimiliano Pacifico e Diego Liguori, produzione di Teatri Uniti, la compagnia di Servillo, e Rai Cinema, è stato presentato per la prima volta in giugno nell’ambito della mostra sui trent’anni del gruppo napoletano che riunì, nel 1987, Falso Movimento di Mario Marone, il Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller e il Teatro Studio di Caserta di Toni Servillo, dando il via a una delle più belle e articolate avventure del teatro italiano del passaggio di secolo.

Chiacchieriamo in camerino con Servillo sulla necessità di questa riflessione profonda sull’attore, sul processo di estroversione/introversione che la sua arte richiede, sull’accurato lavoro sul sentimento che la pièce dichiara necessario, tanto da fare dell’interprete il rappresentante dell’essere umano che sente profondamente la vita e da trasformare l’attore in “qualcuno che viene a consegnare un messaggio suo malgrado”, come si dice nel testo. 

 

Servillo non esiteremmo a definirlo oggi l’artista di teatro italiano più famoso nel mondo. Lui si definisce “primo violino dell’orchestra”, come recita il titolo di un libro di Silvia Grande su di lui (Bulzoni editore). Altri volumi hanno indagato a fondo le caratteristiche della sua arte, per esempio Il teatro di Toni Servillo di Anna Barsotti, studiosa del teatro napoletano di vaglia, che in questo bello studio segue la carriera teatrale dell’attore dalle origini fino all’anno di edizione del volume per Titivillus, il 2016: parte dagli anni della ribellione, della sperimentazione giovanile per arrivare alla conquista della maturità attraverso i testi di Enzo Moscato, di Molière, di Goldoni, di Eduardo De Filippo, tra una stilizzazione attorica che richiama la silhouette e la composizione a tutto tondo del personaggio. Più indietro nel tempo rammentiamo il libro-intervista di Gianfranco Capitta Interpretazione e creatività, per Laterza.

Siamo in camerino.

 

Lo spettacolo, ph. Fabio Esposito.


Stasera, a Napoli, giocavate in casa, ma questo spettacolo sta conquistando il pubblico dovunque lo rappresentiate.

Il teatro è sempre pieno, ed è già il secondo anno che lo recitiamo qui al Bellini. E lo stesso è stato con il recente ritorno a Milano. È uno spettacolo che comporta un notevole sforzo fisico nel tenere alta la tensione su un testo che è fatto di pensieri, perché si tratta di vere e proprie lezioni, più che sulla recitazione direi sull’indagine che compie quest’uomo, Jouvet, sul personaggio. Attraverso tale indagine racconta un suo modo di stare in palcoscenico e, data la statura del personaggio, anche una maniera di affrontare la relazione col mondo. È questo che bisogna far arrivare a una platea di 800-900 persone che non è neanche così preparata a questo tipo di repertorio. All’inizio si può immaginare che sia una serata in cui si assiste a un’operazione di metateatro, ma in realtà qui non si celebra il teatro, anche se di fatto viene esaltato come arte, ma si celebra la passione di due persone con due diverse responsabilità a scoprire quanto di misterioso c’è nel personaggio e quanto di misterioso c’è nell’attore.

 

Cosa ti ha spinto ad affrontare questa sfida?

Innanzitutto io ho un debito di riconoscenza con Louis Jouvet. L’ho incontrato inevitabilmente quando anni fa ho messo in scena Misantropo e Tartufo nelle traduzioni di Cesare Garboli. Con Molière non è possibile non imbattersi in lui e poi è impossibile non rimanerne totalmente affascinati, perché sul drammaturgo francese ha detto cose essenziali. Tra l’altro parliamo di un uomo singolare per molte ragioni: non sono molti gli attori che lasciano una così copiosa testimonianza intellettuale in tanti libri di natura riflessiva sul senso e sulla pratica del proprio mestiere (in Italia oggi possiamo leggere, ristampato da Cue Press, il suo Elogio del disordine, ndr). E questo accade non a un attore arroccato nella sua nobiltà di teatrante o nella torre d’avorio intellettuale, pur essendo espressione di nobili lombi teatrali perché viene da Copeau, dal Cartel des Quatre, formato con Dullin, Baty e Pitoëff, per un teatro non commerciale, d’arte. Era cresciuto all’interno della “Novelle Revue Française” e aveva coltivato gli interessi più disparati, dalle discipline orientali alla frequentazione con Gurdjieff, fino a diventare contemporaneamente l’attore di Francia più famoso al cinema, di un cinema fortemente popolare, per quanto di grande spessore.

 

Lo spettacolo, ph. Fabio Esposito


Questo suo impegno nell’arte e verso il pubblico lo ricordi opportunamente nel docu-film e richiama il tuo stesso modo di essere attore, impegnato in un teatro d’arte, senza sottrarti a più popolari impegni in altri campi dello spettacolo.

Oggi si parla in maniera molto demagogica di élite e popolo, popolo e élite: queste erano persone che avevano un sentire democratico naturale, perché ritenevano che quello che fosse appannaggio dell’élite dovesse essere trasmesso in maniera ampia, a tutti… e hanno sacrificato la propria vita per questo. Perciò io sentivo un debito di riconoscenza nei suoi confronti. Ma nella scelta di questo testo entrano anche considerazioni sull’attore di oggi. Penso che il nostro sia un tempo in cui sia necessario restituire dignità all’attore e alla percezione che il pubblico ha dell’attore. Credo che sia necessario comunicare allo spettatore innanzitutto che il mestiere dell’attore è un mestiere nobile, un mestiere che ha una sua poetica, che l’attore è anche – come nel caso di Jouvet – un poeta, quindi un uomo che attraverso i mezzi della scena e il suo percorso in palcoscenico racconta e interpreta il mondo. Come dice con molta chiarezza Jouvet, soprattutto non è qualcuno che mira ad amministrare il talento o che si abbandona all’esibizionismo, sia esso di natura virtuosistica o di natura intellettualistica. È piuttosto un artista che si fa carico della complessità del personaggio, del personaggio che viene dal dato drammaturgico testuale portante – nel caso di Don Giovanni è inutile dire che ci troviamo di fronte a uno dei miti fondanti della società occidentale – e se ne fa tramite con una coscienza e una grande responsabilità di trasmettitore, di comunicatore. Quando Jouvet parla di incandescenza, parla dell’attore che arriva a uno stato di sensibilità in cui prova più intensamente quello che provano gli altri esseri umani. E così vedi bene che ci troviamo di fronte a qualcuno che porta il livello della recitazione a livelli di sofisticazione, di nobiltà, di moralità straordinaria. 

 

Non è comune una tale concezione dell’attore. Nel vostro spettacolo risalta benissimo. Voi ingaggiate una lotta estrema col personaggio, a svuotarlo dagli stereotipi, a riempirlo di vita, di sentimento, in una relazione tormentata, che a volte ha caratteri quasi sadomasochistici, che ricordano la profondità, la gioia e anche il dolore, la crudeltà radicale e l’esaltazione di ogni ricerca vera, di quelle che riescono a mutare profondamente lo stato delle cose esistenti. C’è sempre, in Elvira, come un’altalena tra l’ascolto e la sfida, tra la violenza maieutica e la delicatezza del portare alla luce, del propiziare e accogliere lo stato nascente delle cose… E così il vostro lavoro diventa una lezione, non solo nella finzione del testo, ma anche per gli spettatori.

Io penso che oggi una parte di giovani – non quelli che praticano il teatro, ma quelli che lo guardano o dovrebbero guardarlo – hanno un’idea dell’attore come di un camaleonte che amministra più o meno qualche dote in cui è particolarmente specializzato, come se recitare fosse un’acrobazia perenne e non invece un mettere a disposizione la propria complessità e la propria personalità nel confronto approfondito con testo. Per queste ragioni mi sono convinto a fare questo lavoro.

 

Lo spettacolo, ph. Fabio Esposito


Questa ricerca di scavo nell’attore attraverso Jouvet come si rapporta con tutta la tua esperienza precedente, e con gli altri modelli di attore che hai guardato nella tua carriera? Il Misantropo è del 1995 e là, dicevi, hai incontrato in modo ineludibile la lezione dell’attore francese. Ma prima e dopo hai attraversato altri maestri, ideali o vicini, da Viviani a Moscato, da Leo de Berardinis a Molière, appunto, e Jouvet, a Eduardo De Filippo.

Naturalmente quello che io dico a proposito di Jouvet, o di Eduardo, che sono due figure per certi aspetti molto distanti e per certi altri molto vicine, mi sentirei di dirlo come debito di riconoscenza innanzitutto nei confronti di Leo de Berardinis, con cui ho lavorato in un’epoca importante della mia formazione, per esempio con Ha da passa’ a nuttata, tratto da vari testi di Eduardo, a Spoleto nel 1989. Con Leo ho avuto un’amicizia profonda, per anni ci siamo sentiti al telefono tutte le sere: dopo o prima la telefonata con Perla chiamava me. Ma importante è stata anche la frequentazione con Carlo Cecchi, perché loro, come Eduardo, sono attori che hanno sempre tenuto presente la lezione del passato, senza rinunciare a una tensione tutta contemporanea nei linguaggi che articolavano nel loro teatro, e soprattutto hanno sempre pensato, in maniere diverse, che il teatro dovesse essere un’occasione di comunicazione pubblica. Quello che imparo in maniera diversa a seconda delle personalità di tutte queste persone del passato o del presente o del passato recente è che bisogna invitare lo spettatore a un viaggio. Quando si osserva una recita di Amleto, di Misantropo, di Tartufo, bisogna portare lo spettatore in quella condizione felice che fa dire: quello che stanno facendo sul palcoscenico è qualcosa che mi riguarda profondamente. Perché c’è un’altra deriva, oltre a un eccesso di superficialità nel considerare il mestiere dell’attore e il lavoro del teatro: a volte trovo un’ossessione di ricerca di nuovi linguaggi che porta la scena a una dimensione di autoreferenzialità che gli toglie la sfera di incisività nella dimensione pubblica. Secondo me il teatro se non incide nella società rischia di perdere la sua ragione stessa di esistere. È la ragione per cui ti citavo quei nomi, non come motivo di soddisfazione personale. D’altra parte io ho conosciuto le sale vuote… 

 

Stai parlando dei tuoi inizi… Già con Rasoi di Moscato e con Zingari di Viviani si erano riempite.

Sì, anche se fu una scelta difficile, controtendenza, anche quella di fare Viviani, un genio confinato nella zona del dialetto, che non ha mai addomesticato, rinchiuso in una dimensione regionale: sono stati pochi quelli capaci di apprezzarlo e di trasmetterlo.

 

Questa di Elvira sembra una scommessa vinta…

Lo spettacolo è stato visto già da 60-70mila spettatori solo in Italia, lo dico senza nessuna falsa modestia e neanche con un particolare orgoglio. Ma quando ho iniziato a lavorarci avevo paura. Ho detto: cominciamo un’avventura che potrebbe finire sul nascere, proprio per la natura del testo di essere un lavoro di idee. E invece siamo andati avanti con uno spettacolo che mostra come il lavoro che si fa in teatro abbia una forte incisività nelle coscienze della maggior parte del pubblico. Elvira non è spettacolo facile… Ho frequentato altri repertori, non facili ma certamente più popolari, dove se non altro il pubblico si può abbandonare al racconto di una vicenda… Qui non c’è vicenda: è un teatro di idee e la scommessa era di farlo diventare un teatro di appassionate idee o di passione per le idee, per i pensieri. E stasera è una serata particolare, mostriamo il film che rimanda agli inizi del lavoro, alle prime prove alla Biennale di Venezia nell’estate del 2016. Non so quanti resisteranno a vedere anche quello, con dibattito finale (in realtà la sala si è riempita anche per il film, e tutti gli spettatori sono rimasti incollati alle sedie anche nella vivace discussione finale, ndr)

 

Il film: a Venezia.


Come è nato il film Il teatro al lavoro?

Da un’idea di Angelo Curti, il presidente della nostra compagnia, Teatri Uniti. Il team si era formato quando abbiamo documentato la tournée nel mondo della Trilogia della villeggiatura di Goldoni, da New York a Mosca a Istanbul, Varsavia, Parigi. Qui volevamo raccontare la nascita di uno spettacolo. L’occasione era ghiotta, perché la offre la natura stessa del testo, che mette in scena una prova. 

 

Infatti si crea un bel cortocircuito tra le prove vere del vostro spettacolo, il processo che porta giovani d’oggi appena usciti da una scuola di teatro e te verso la materia della pièce, e lo scavo nel personaggio di Elvira nelle lezioni di Jouvet in una Parigi assediata dalla guerra. Quante ore di video avete girato?

Credo qualche centinaio, per arrivare a un’ora soltanto di film che condensasse, senza annoiare lo spettatore, il processo. Ne viene fuori il racconto di una compagnia di oggi che in maniera appassionata e problematica si stringe intorno a questi argomenti, mostrando le ambizioni ma anche i fallimenti, le crisi, gli entusiasmi. Si intitola non a caso Il teatro al lavoro perché non è un omaggio al lavoro del teatro. Non si invita il pubblico ad assistere a quello che accade dietro le quinte, ma si invita a riflettere sul teatro come qualcosa che lavora nelle coscienze degli attori e nelle coscienze degli spettatori. In questo senso è un’operazione diversa profondamente da quella proposta da Strehler quando mise in scena il testo con Giulia Lazzarini, nel 1986. Lui invece mostrava proprio il lavoro del teatro: aveva creato lo spettacolo per l’inaugurazione del Teatro Studio, aveva cambiato il titolo in Elvira o la passione teatrale, non aveva messo in scena interamente il testo di Brigitte Jaques, e non lo aveva contestualizzato negli anni della guerra, eliminando qualcosa di molto importante, che arriva in modo molto chiaro.

 

Sì, perché in questo recesso dell’approfondimento umano, apparentemente isolato dal mondo, a un certo punto arrivano le voci dei nazisti invasori, prima, dopo la sesta lezione, il discorso di un qualche gerarca con grida di folle plaudenti, poi, alla fine dell’opera, un’allocuzione scandita, violenta, allucinata dello stesso Hitler. A un certo punto date un colpo al cuore dello spettatore con l’evocazione di questa tempesta, che rivela quel luogo, il teatro, la scuola per attori, un’isola dove si cerca di preservare l’umanità dal naufragio. 

Se ci pensi è quello che racconta Truffaut nell’Ultimo metro… Un altro motivo che risulta evidente nel documentario – che continuiamo a presentare in varie città italiane, prossimamente a Pisa con Anna Barsotti, e alla Cineteca di Bologna (le proiezioni sono avvenute il 22 e il 23 gennaio, ndr) – è qualcosa di affascinante insito nella natura profonda di questo testo: la dimensione pedagogica. Jouvet si mostra non solo uno straordinario attore, ma un magnifico pedagogo nel senso più nobile del termine, cioè qualcuno che non riempie l’allievo della visione dell’adulto come se fosse un vaso vuoto, ma mantiene nell’allievo, nel giovane, lo stupore dell’infanzia, contagiandolo con il suo stesso stupore davanti al testo. Ciò che affascina in questa relazione pedagogica tra due persone che non si incontreranno mai più nella vita, separate dalla tragedia del secondo conflitto mondiale, è questa maieutica del tutto speciale per cui lei impara qualcosa da lui e lui impara qualcosa da lei. Lei avrà appreso certamente che si può essere attori diversi dagli attori routinieri: pensa a quanto questo testo allontani i giovani dall’idea che la parola attore sia collegata alla parola mercato, alle parole successo, carriera, danaro… E questa è stata una delle ragioni del documentario. Jouvet diffonde un’idea dell’accostarsi a questo nostro mestiere come una dimensione spirituale, che credo vada profondamente divulgata nei tempi abbastanza bui che attraversiamo. 

 

Il documentario fa risaltare la bellezza dello spettacolo, rimandando ai primi faticosi passi nel testo e nella situazione che propone, a quelle difficoltà iniziali che ora nell’opera in tournée sono recitate. Si capisce che la legnosità dell’attrice che vediamo oggi nelle prime lezioni è il risultato essa stessa di un lungo lavoro a trovare e a togliere di nuovo, a introiettare il personaggio e a estrofletterlo, per poi ritornare agli inizi del processo.

I risultati raggiunti sono stati continuamente rimessi in discussione, fino al debutto di quest’anno a San Pietroburgo. Per la terza stagione porto tre spettacoli al Maly Teatr di Lev Dodin, un luogo che è una vera e propria casa di attori. E anche il documentario racconta che c’è un continuo lavoro che arriva fino al debutto a Parigi pochi minuti prima di fare sipario al Théâtre Athenée, quello di Jouvet. Io sono uno che capisce i testi praticandoli. Non ho visioni a monte, credo di arrivare quasi sempre impreparato la sera della prima. Riesco a comprendere i valori di un testo praticandolo, come un violinista all’interno di un’orchestra d’archi, un’immagine che uso spesso. Era il primo violino che prima dell’avvento del direttore d’orchestra si occupava di concertare un’esecuzione. Ecco, io concerto dall’interno l’esecuzione: ho sempre recitato nei miei spettacoli, tranne in un solo caso, perché il mio modo di comprendere il testo è dall’interno, praticandolo, e questa è anche una lezione che viene da tutti gli attori-registi che abbiamo nominato prima, Jouvet, Eduardo… fino a Leo e a Carlo Cecchi.

 

Il film: prove a tavolino.


Come mai in molte città, per esempio Bologna, lo spettacolo non è arrivato?

Confesso che proprio per la necessità che ha di essere coltivato nell’esecuzione sera per sera, ho voluto sottrarlo alla routine della tournée e quindi abbiamo deciso di farlo con lunghe teniture a Milano, a Napoli, a Firenze… Saremo a Roma a fine stagione, ritorneremo a Parigi… Ho bisogno di concentrami sera per sera sull’esecuzione; ho bisogno di proteggerlo sottraendomi alla logica vagabonda del giro, assumendoci anche rischi.

 

Farete anche un film dello spettacolo?

Quasi sicuramente lo riprenderemo a Parigi all’Athenée. Ci auguriamo che in quella circostanza ci sia Paolo Sorrentino a firmare la regia. Lui ha già girato con noi, per la Rai, Sabato, domenica e lunedì e Le voci di dentro. Paolo sarebbe felice di farlo, ci auguriamo di riuscire a mettere tutto insieme, ma non è facile.

 

Quest’estate alla mostra sui trent’anni di Teatri Uniti ti sei presentato pelato, perché stavi girando un film. Cos’è?

Stavamo ultimando le riprese del primo film di Igort, uno dei nomi più importanti della graphic novel d’autore, fondatore della Coconino Press. Il film, che dovrebbe uscire in primavera, è tratto da una delle sue opere di maggior successo, tradotta in molte parti del mondo, 5 è il numero perfetto, una storia ambientata negli anni ‘70. Ha per protagonista un vecchio killer in pensione che è costretto per varie ragioni a tornare in pista. Con me, tra gli altri, recitavano Valeria Golino e Carlo Buccirosso.

 

Il vecchio killer sei tu?

Sono Peppino Lo Cicero. Sembrerebbe una storia di mala napoletana e invece secondo me – e spero che questo arrivi al cuore dello spettatore – è una vicenda di forti atmosfere čechoviane, nonostante l’epoca, il contesto sociale, i personaggi, perché questo vecchio killer in pensione per una serie di vicende capisce che tutto quello che ha fatto nella vita è sbagliato e che passando attraverso certe porte molto strette si può andare verso una redenzione.

 

A proposito: ti è mai venuto in mente di mettere in scena Čechov?

Molte volte. Parlando di questo possiamo rendere omaggio alla memoria di un grande regista scomparso, Nekrosius. Ricordo che rimasi molto impressionato quando, durante una sua conferenza stampa, credo per le Tre sorelle a Porto, dove noi contemporaneamente recitavamo Rasoi, a una domanda su Čechov rispose: “Čechov non è una faccenda per giovani”. Me ne sono tenuto distante, ma non è detto che non arrivi il momento maturo per affrontarlo. Io trovo, ma questa è un’opinione assolutamente personale, ci sia una triade di autori formidabili che hanno scritto il teatro contemporaneo, nei quali ci possiamo rispecchiare completamente come le epoche precedenti si ritrovavano nei giganti Shakespeare e Molière: secondo me sono Čechov, Pinter e Bernhard. Mi deciderò prima o poi ad affrontarli. A loro mi accosto con prudenza. Bernhard, per esempio, è formidabile ma è difficilissimo, anche se ci sono stati spettacoli insuperabili, come il Ritter, Dene, Voss di Carlo Cecchi. I grandi classici sono un teatro di gioventù, i loro protagonisti sono ragazzi, Amleto, Tartufo… Invece man mano che si va avanti probabilmente c’è bisogno di interpreti con più anni, più maturi… Čechov lo leggo continuamente, ho avuto di recente un ritorno di fiamma per Zio Vania, ma oggi se ne mettono in scena tanti di Zio Vania… bisogna trovare il momento giusto. Io devo una parte della fortuna di Sabato, domenica e lunedì all’aver trovato il momento in cui su Eduardo si era creato un vuoto. Noi l’abbiamo riempito.

 

La conversazione finisce. L’attore si cambia, per andare ad assistere al film e per rispondere alle domande degli spettatori. Lo ha detto in scena, con le parole di Jouvet, lo ripete nel documentario, lo dirà nel dibattito. Essere attori, recitare, è un’avventura umana, appassionante, che compromette una parte di sé. Il testo è una favola, una menzogna, che l’attore, mentendo più del testo stesso, rende vivo, vero. Il teatro è un mistero che permette di guardare a fondo dentro di sé e nel mondo. 

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